Elea-Velia

Elea-Velia

giovedì 18 marzo 2010

Una Repubblica fondata sulla televisione di Giancristiano Desiderio













Non siamo ad Anno Zero ma all’anno zero. Tutto sommato non c’è molta differenza. Sono
vent’anni che abbiamo a che fare con Santoro, Samarcanda, la piazza, sandroruotolo, la protesta e la brutta copia della democrazia diretta ossia la democrazia “in diretta”.
Sono vent’anni che ci sorbiamo Berlusconi,la nenia sull’egemonia culturale dei comunisti, la lottizzazione, il duopolio Rai-Mediaset (che tanti anni fa si chiamava Fininvest), l’interferenza dei giudici nella campagna elettorale. È un telefilm visto già innumerevoli volte. La lotta politica e antipolitica per il controllo della
scatola televisiva ha rotto le scatole. Scusate l’eccessiva schiettezza del linguaggio, ma questo polpettone teleelettorale è andato a male in tempo reale e,
tuttavia, non riusciamo a liberarcene. Il guaio grosso è che la lotta per la scatola audiovisiva e virtuale invade la vita reale e tende a far credere che tutto il potere
- che sarebbe meglio chiamare Stato - sia lì dentro, in quei ventotto o trentadue pollici in analogico o digitale. Siamo diventati una democrazia fondata sulla televisione e non possiamo stupirci se l’Italia scivola in fondo a tutte le classifiche del mondo per libertà economica e morale. Occupati come siamo a vedere il
mondo solo in tivvù abbiamo semplicemente perso di vista la realtà.
Berlusconi e Santoro sono i Grandi Fratelli della nostra democrazia. Fate un piccolissimo sforzo di memoria. Non vi sembra di ricordare che lo scontro di oggi sia già andato in onda almeno un paio di volte? Non ricordate quando Santoro aprì la sua trasmissione dell’epoca - Il raggio verde - intonando Bella ciao? E non ricordate
la telefonata in diretta del Cavaliere, all’epoca presidente del Consiglio proprio come oggi, che era un fiume in piena e richiamava Santoro all’ordine della televisione di Stato?
«Santoro - diceva si accalorava il capo del governo - le ricordo che questo è un servizio pubblico e lei è un dipendente del servizio pubblico». Forse, all’epoca tutto ciò ci sembrava epico; forse, un po’ tutti nutrivamo l’idea che si stesse combattendo una battaglia postmoderna fondamentale per le nostre libertà: da una parte la libertà di critica e di cronaca (e di satira) e dall’altra la libertà del governo dagli assalti senza soluzione di continuità del circo e circolo mediatico-
giudiziario. Abbiamo creduto tutti a delle menzogne. Perché se fossero state cose serie sarebbero state, volenti o nolenti, affrontate e in qualche modo sistemate. Invece, cambiano i governi, cambiano i consigli di amministrazione della Rai,
cambiano le trasmissioni e perfino - anche se non sembra - i conduttori, ma niente cambia nella lassù e qua giù: Berlusconi e Santoro, in perfetta par condicio, sono ancora in lotta tra loro e contro di noi.
Chissà se c’è al mondo un altro Paese in cui ci sia una cosa come il Cda Rai. Chissà se c’è al mondo un altro Paese in cui sia la commissione di vigilanza e la par condicio e il divieto dei talk show in campagna elettorale. Non sembra ci sia al mondo un’altra democrazia con Berlusconi e Santoro. Il Cavaliere è un caso più unico che raro: non perché non ci siano politici proprietari di televisioni, ma perché la
videocrazia berlusconiana dura da tanto tempo e la logica pubblicitaria che muove il teatrino televisivo di Berlusconi ha ormai rivelato il suo bluff. Anche Michele Santoro è una rarità tutta italiana: ogni sua trasmissione è la popolarizzazione da salotto televisivo della marxistica falsa coscienza di chi governa e che, per definizione, è colpevole. Si azzuffano da vent’anni per il controllo del video e
noi che li vediamo arrabbiarsi e imbufalirsi abbiamo finito con credere alle loro bugie e virtualità. Non ne possiamo più.Vogliamo un Paese senza par condicio, senza Cda e vigilanza, senza un premier che si preoccupa dei palinsesti, senza giornalisti rivoluzionari e decorati al valore antiberlusconiano.
Vogliamo quello che una volta fu definito un Paese normale. Ma lo si potrà
vedere solo in televisione.

martedì 9 marzo 2010

Reality di Peter Kingsley




















I. Il viaggio finale.

Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa- Isaia

1.

Sarebbe bene annotare queste cose prima che siano perse per altri due mila anni.
Per favore non fraintendetemi. Quello che ho da dire si trova in ogni luogo: nell’aria che noi respiriamo, in ogni foglia cadente, in ogni singolo oggetto che vediamo. Esserne consapevoli e rompere l’incantesimo fiabesco in cui siamo avvolti- questa è un’altra storia.
Seguirà uno strano racconto: strano, perché è il racconto alle origini della storia della nostra vita. Se si trattasse di qualcos’altro, se si trattasse semplicemente di cose accadute nel passato, allora saremmo liberi di continuare a dimenticare. Ma così non è, questo racconto non vi lascerà soli e non vi darà pace.
Molto spesso cerchiamo di convincerci che stiamo vivendo intensamente, una vita soddisfacente. Ma c’è sempre qualcosa che ci inquieta; ambizione, insoddisfazione ne sono solo l’ombra. E continuerà a lacerare i nostri cuori fino a quando non incominceremo a recuperare ciò che abbiamo perso.
Forse sarai tentato a credere a questo racconto. Nel caso tu dovessi crederci permettimi di avvertirti cortesemente, in quanto potresti ritrovarti a dover rinunciare alle tue convinzioni. La posta in gioco è alta.
Potresti supporre che esista una sorta di isola felice in cui tu puoi ottenere cose in due modi diversi. Ma credimi, secondo la mia esperienza posso dirti: non c’è affatto. Se non vuoi abbandonare le tue credenze , ti basterà ignorare quello che andrò dicendo.
In entrambi i casi, non fa vera differenza per me. Il mio compito è solo raccontare la storia- questo è tutto. Ed inoltre: ci sono cose che, una volta che sono state dette, non possono essere ritrattate.
Esse sono scritte sulle pietre.
E ciò che è scritto sulla pietra ti riguarda. E tu sei la pietra.

2.

Verso la fine del VI secolo avanti Cristo, nasce qualcuno chiamato Parmenide.
La sua Patria: una piccola città chiamata Velia nel Sud Italia.
Se però vogliamo capire il contesto in cui visse Parmenide, non è sufficiente concentrarsi sull’Italia del sud- anzi è del tutto insufficiente.
La città di Velia venne alla luce e costruita appena pochi anni prima della nascita di Parmenide. La popolazione che La fondò era di stirpe greca, ed erano conosciuti come Focei, perché provenivano da Focea: una città distante centinaia di miglia da Velia, verso est, sulla costa occidentale dell’attuale Turchia. Era all’incirca il 540 A.C. quando i Persiani cacciarono i Focei dalla loro antica città d’origine costringendoli a vagabondare nel Mediterraneo, avanti e indietro, su e giù, alla ricerca di un nuovo posto dove stabilirsi e vivere.
Il racconto del loro vagabondaggio- di eroi alla ricerca degli eroi perduti, di uomini e donne insieme a bambini che legano le loro vite alla capacità o meno di rispondere ad un oracolo che parla di enigmi di Apollo- è come un romanzo che gli storici hanno voluto ignorare liquidandolo come racconto inventato. Ma un certo tipo di scoperte fatte qua e là in anni recenti hanno mostrato quanta verità esso contiene. Ed inoltre: quando trattiamo della storia dei focei, pezzo dopo pezzo noi dobbiamo dischiudere le nostre menti. Per gente come loro, finzione era una realtà e ciò che noi ci dilettiamo a riferire come dei fatti erano delle storie frutto dell’invenzione.
In tutto questo dramma che porta all’arrivo finale a Velia, proprio in quel breve periodo prima che nascesse Parmenide, una considerazione quest’ultima che occorre tenere ben presente.
È che i Focei erano un popolo molto, molto conservatore. Dopo che essi se ne andarono verso ovest conservarono i loro antichi costumi dall’Anatolia intatti e inalterati per secoli- quasi per mille anni. Anche nella loro difficile situazione, con l’esercito Persiano alle loro porte senza un momento da perdere o sprecare, la loro priorità fu quella di recuperare ogni singolo oggetto che li avrebbe aiutati a mantenere il filo delle loro tradizioni religiose senza interruzione ovunque essi fossero riusciti ad andare.
Potrebbe sembrare un punto poco importante, non valere molta attenzione. Ma per la nostra storia è piuttosto cruciale.
I focei potrebbero sembrare un piccolo popolo, di poco conto. Ma le apparenze possono essere ingannevoli.


3.

Potresti chiederti per quale motivo mi affanno, e vi affanno, con questi dettagli.
Tutto ciò ha che fare con Parmenide.
Quest’uomo ha giocato un ruolo straordinario nell’Occidente, quasi inconcepibile: dando forma al mondo e alla cultura in cui viviamo.
Vi sono buone probabilità per cui tu non abbia mai sentito parlare di Parmenide, e c’è un motivo per questo. Da sempre domina la strana tendenza da parte dei studiosi di tenerlo dietro le quinte- persino quando si scrive di lui. C’è qualcosa, in Parmenide, che oltrepassa gli schemi familiari della nostra comprensione.
Da molto tempo a questa parte Parmenide è stato riconosciuto dagli specialisti e dagli storici il fondatore della logica; il fondatore del razionalismo. E come puoi vedere da quest’ultima espressione, non si tratta soltanto del significato particolare che assume per gli studiosi del passato. Non è neanche il fatto della sua importanza nel gettare le fondamenta della filosofia e della scienza, nell’intero processo della moderna istruzione. Ciò che è realmente in gioco qui è ancora più essenziale di tutto ciò.
Riguarda le origini della nostra cultura occidentale, di come noi pensiamo e ragioniamo. E questo è qualcosa che ci tocca tutti intimamente.
Discutere di ragione e logica è abbastanza semplice. Ma comprendere cosa sono, vedere di sfuggita cosa nascondono, è qualcosa di completamente differente. Il fatto è che quello che noi abbiamo finito per designare logica e ragione è solo un inganno, considerandoli come ciò che essi non sono.
Ragione è una di quelle cose- come il senso comune- che ognuno da per scontato di saperne il significato. Già da bambini ci dicono di essere ragionevoli, costringendoci a fare quello che gli altri vogliono. Noi siamo tutti convinti di avere una idea chiara di cosa sia la ragione. Ma non c’è nessuno che ce l’abbia.
Più hai l’impressione di avvicinarti più l’idea diventa vaga. E più hai l’impressione di avvicinarti a persone che pretendono di essere molto razionali, più risultano essere irrazionali. Noi viviamo in un mondo di ombre senza più accorgercene, o comprendere cosa stia accadendo.
Prendiamo la logica, anch’essa non è quello che sembra- o ciò che fu un tempo. Originariamente non aveva niente a che fare con formule complicate e calcoli bizzarri. Il suo intento era destare consapevolezza: per attingere e trasformare ogni aspetto dell’essere umano. Quello che noi oggi consideriamo come logica può essere assimilato ad una neonata che si affanna sull’importanza delle scarpe di sua madre. Con i nostri dibattiti eruditi e senza fine sugli ultimi duemila anni su religione e razionalità, logica e scienze, non riusciamo più ad afferrare la realtà e ci comportiamo come dei neonati. È arrivato il tempo di ricominciare a crescere.
La gente di cui vi voglio parlare in questo libro non è immaginaria. E non provengono dall’America Centrale o dall’India o meglio da qualche lontano paradiso esotico dell’Oriente ma dalle radici della civiltà occidentali. Costoro formano le radici della nostra civiltà occidentale; sono le fonti la nostra cultura. Lentamente, gradualmente, essi sono stati travisati. E, come conseguenza, non riusciamo più a comprendere noi stessi.
Facciamo tutti parte di questa storia: questo è un libro di cui noi siamo le pagine.
Le implicazioni di questa incomprensione sono straordinarie. Così importanti, onnicomprensivi, che difficilmente possiamo più intuirli. Forse il modo più semplice di descrivere la situazione consisterebbe nel dire che, duemilacinquecento anni fa nell’Occidente, ci fu fatto un regalo- e noi puerilmente abbiamo gettato via le istruzioni d’uso. Abbiamo conosciuto con cosa stavamo giocando. E, come risultato, la civiltà occidentale potrebbe essere nient’altro che un esperimento fallito.
Gli scritti di Parmenide, e di altri come lui, sopravvivono allo stato di frammenti. Gli studiosi hanno escogitato ogni sorta di giochi con essi. Per secoli hanno continuato i loro esperimenti distorcendo e torturando questi frammenti finché non sembrò che fornissero un senso esattamente opposto a quello originario. Per poi continuare infinite dispute sul loro significato e metterli in mostra come reperti in un museo.
Nessuno capì veramente quanto fossero importanti.
Sebbene questi frammenti sopravvivano in briciole e pezzi, essi sono molto meno frammentari di noi stessi. E molto più che parole morte.( Even though they only survive in bits and pieces, they are far less fragmentary than we are. And they are much more than dead words- pag. 21). Sono come dei tesori mitologici- un inestimabile oggetto che è stato perso e maltrattato e necessita di essere riscoperto a tutti costi.
Ma questa storia non è mitologia, o fiction. È reltà. Fiction è come essere seduto su una miniera d’oro sognando dell’oro; è tutto quello che accade quando tu dimentichi ciò.
Non c’è assolutamente niente di mistico in quello che sto dicendo.
È molto semplice, assolutamente realistico e pratico. Siamo inclini a pensare di avere i piedi per terra quando ci occupiamo di fatti. Ed ancora di per sè i fatti non hanno alcun significato: è molto facile non riuscire a districarsi con dei fatti così come è facile perdersi nelle fictions.
Essi hanno il loro valore, e noi dobbiamo usarli- ma usarli per andare oltre loro. I fatti da soli sono come se stessero in cima ad una miniera d’oro e graffiandovi la polvere rimangono nello stesso posto.( They have their value, and we have to use them- but use them to go beyond them. Facts on their own are like sitting on top of a goldmine and scratching at the dust around our feet with a little stick- pag 21).
Tutti i nostri fatti, così come tutto il nostro ragionamento, sono solo una facciata. Questo libro tratta di quello che essi hanno ricoperto, della realtà che vi è nascosta. Dietro questo tesoro nascosto troviamo la nostra vera origine, la nostra eredità; e su ciò che noi dobbiamo essere preparati se vogliamo recuperarlo. (All our facts, like all our reasoning, are just a facade. This book is about what they have covered over, about the reality that lies behind. It's about the buried treasure that is our birth-right, our heritage; and about what we have to be prepared for if we want to reclaim it- pag. 22).


4.

Più ci avviciniamo a Parmenide, più il tutto ci diventa estraneo.
Il guaio è che da molto tempo ormai abbiamo perso la capacità di imparare da ciò che ci risulta estraneo(The trouble is that we lost the ability to learn from strangenesses a long time ago).
Siamo spaventati, le nostre convinzioni vengono messe in discussione, e più ci sentiamo coinvolti, più ci sentiamo minacciati. In questo mondo è diventato molto più facile crearsi un rifugio, un mondo fittizio; vedere solo ciò che vogliamo vedere e ignorare tutto il resto.
La maggior parte delle traduzioni moderne di quello che Parmenide disse hanno poco a che fare con il significato del suo greco originale. Quasi ogni anno vengono pubblicate su Parmenide pagine e pagine- interpretandolo alla luce di interessi e problemi contemporanei, in una continua divisione. Mentre ciò che è fondamentale sembra sparito completamente. (Pages and pages are published about him every year- interpreting him in the light of contemporary interests and issues, splitting endless hairs. But what is most essential is left completely untouched).
C’è qualche motivo di base che doveva essere nascosto, dei punti essenziali che non è possibile accantonare. Assolutamente non abbiamo altre possibilità. Come cultura e civiltà possiamo illuderci nell’eterno progresso. Nonostante il nostro amore per giocattoli creativi e distruttivi, stiamo andando verso il nulla. Noi siamo come qualcuno che ha afferrato la maniglia di una porta. L'unica possibilità immediata è iniziare a tornare sui nostri passi - è liberarsi dai malintesi riguardo al nostro passato e su quello che noi siamo.( We are just like someone who has caught a strap on a door handle. The only way forward is to start by going back- is to detach ourselves from the misunderstandings about our past and about what we are).
Sulla base dei frammenti che ha scritto, Parmenide è considerato come l’inventore della logica. E già qui incontriamo qualcosa di strano. Non vi era alcuna necessità di scrivere in forma poetica. Egli avrebbe potuto più facilmente usare una prosa asciutta invece.
È certamente vero che per molto tempo Lui è stato licenziato come un cattivo poeta. Ma tale giudizio si basa su un puro pregiudizio.
Risale alla vecchia credenza, formulata per la prima volta in modo chiaro da Aristotele secondo cui logica e poesia non hanno niente in comune- e se qualcuno fosse preoccupato che trovando la verità riuscirebbe a diventare un poeta il risultato sarebbe un disastro.
Il problema è che il poema di Parmenide non è per niente un disastro. Alcuni moderni studiosi si sono avvicinati ai suoi frammenti gettandovi un sguardo nuovo e hanno compreso che egli riuscì a creare una forma poetica bella e sottile rispetto qualunque lingua, non solo il greco. Ancora: accantonare Parmenide come poeta scaturisce dal presupposto che il fine della poesia sia intrattenere. Come vedremo gradualmente: il Poema di Parmenide aveva uno scopo molto differente.
E poi, indipendentemente dal modo in cui Lui scelse di esprimersi, c’è da chiedersi cosa abbia voluto dire effettivamente.
Certamente scrisse di logica, ma solo nella sezione centrale del suo poema, nella seconda di tre parti. In qualche modo, si è sorvolato sulla prima parte e rapidamente ci si è dimenticati dell’ultima parte. Come avrai potuto notare un aspetto importante per imparare a ragionare presuppone la facoltà di concentrarsi su un singolo aspetto e trascurare l’insieme.
Parmenide ha spiegato nel dettaglio come sia riuscito ad apprendere le sue conoscenze. Ci trasmette con gentilezza dei suggerimenti su come dobbiamo prepararci se vogliamo avvicinarci e comprendere quello che ha da dirci. Ci offre chiari avvertimenti sulle insidie, gli ostacoli che possiamo incontrare. Ma oggi come oggi nessuno ha la pazienza o l’umiltà per prendere queste indicazioni ed avvertimenti seriamente. Gli uomini si precipitano diritto su ciò che Parmenide ha detto sulla logica, e sono divenuti così fiduciosi nella loro capacità di ignorarne le istruzioni che non riescono a rendersi conto di come siano rimasti disperatamente aggrovigliati.
La nostra è diventata la cultura di quello che ci fa più comodo: ma comprendere se stessi ci disturba perché il mondo in cui viviamo è stato capovolto.
Con Parmenide non è possibile prendere scorciatoie. Semplicemente occorre ricominciare dal principio.


5.

E per Parmenide il tutto inizia non meditando, o graffiando le nostre teste, ma proprio così:

Le giumente che mi conducono fin dove il mio desiderio chiede
procedevano, dopo che le dee mi guidarono
lungo la strada leggendaria della divinità che conduce colui che sa
attraverso l’ignoto sconfinato e oscuro. Sempre più avanti
venivo condotto e le giumente, edotte del sentiero, mi conducevano
trainando il carro, e giovani donne mostravano la strada.
L’asse del mozzo emetteva un suono di canna vuota,
arroventato dalla pressione dei due rotanti cerchi
posti su entrambi i lati; fanciulle, figlie del Sole,
che avevano lasciato le dimore della Notte
per dirigersi verso la luce, con le mani
sollevavano dai loro volti i notturni veli.
Là sono le porte del sentiero della Notte e del Giorno,
tenute salde da un architrave e da una soglia di pietra;
s’innalzano fino ai cieli con giganteschi battenti.
E le chiavi, che aprono e serrano, sono tenute salde dalla Giustizia,
che sempre esige ciò che è dovuto. E con dolci parole suadenti
le accorte fanciulle la persuadevano a togliere senza indugio
la spranga che chiude le porte. E come i battenti si aprirono,
facendo girare, ora da una parte ora dall’altra, i perni e le viti
nelle canne di bronzo vuote, si aprì un abisso. Rapide le fanciulle
tennero saldi carro e cavalli lungo la strada.
La dea mi accolse benevola e con la mano prese la mia destra
e mi rivolse le seguenti parole: “Benvenuto, giovane, compagno di aurighe immortali,
che giungesti alla nostra dimora condotto da giumente.
Non fu sorte maligna che ti portò a seguire la strada
così lontana dagli umani sentieri, ma Legge e Giustizia.
Ciò che ti abbisogna è apprendere ogni cosa, il cuore saldo
della ben rotonda Verità e i giudizi dei mortali,
in cui non si può riporre fiducia.
e ancora questo apprenderai: alle apparenze
si deve prestar credito se di ogni cosa si tiene conto”.


E già da questi primi frammenti è possibile scorgere degli indizi dell’intero poema.
Uno dei fattori determinanti in questa strana cosa che per Parmenide influenza tutto- che determina semplicemente a quale distanza in questo viaggio egli possa in realtà arrivare- è il desiderio.
Il termine greco che egli usa è “thumos” , e “thumos” significa l’energia della vita stessa. È la cruda presenza in noi che tocchiamo e percepiamo; l’immenso potere del nostro essere emotivo. Soprattutto è l’energia della passione, l’appetito, il desiderio ardente, la voglia.
Fin dai tempi di Parmenide abbiamo imparato così bene a custodirlo, a dominarlo, punirlo e controllarlo. Ma con Lui è ciò che viene per primo, proprio all’inizio. E in questo vi è un significato profondo- perché quello che Lui sta dicendo è che- lasciato a se stesso- il desiderio ci permette di andare lungo tutta la strada dove realmente dobbiamo giungere.
Con passione e desiderio non è possibile alcun ragionamento, anche se preferiamo ingannare noi stessi credendo che vi sia. Tutto ciò che facciamo è ragionare con noi stessi sulla forma che il nostro desiderio andrà assumendo. Ci illudiamo che se trovassimo un lavoro più soddisfacente saremmo più felici, ma non lo saremo mai. Ci illudiamo che andando in qualche posto speciale saremo felici; ma appena arrivati siamo gia pronti per ripartire e andare da qualche altra parte. Ci illudiamo che se ci addormentassimo con l’amante dei nostri sogni saremmo soddisfatti. E ancora, anche se ci fossimo riusciti, non sarebbe ancora abbastanza.
Ciò che noi definiamo natura umana non vuole dire altro che essere tirati per il naso in cento direzioni diverse per poi alla fine arrivare da nessuna parte. Ma sebbene non vi sia alcuna logica nella nostra passione, essa contiene una straordinaria intelligenza di per sé. L’unico problema è che continuiamo a interferirvi; continuiamo a scomporla in tanti piccoli pezzi, disperdendola ovunque. La nostra mente riesce sempre a corromperci sulle piccole cose che noi pensiamo di volere- piuttosto che sul carattere del volere stesso.
Se riuscissimo a sopportare il nostro desiderio invece di stare alla ricerca di infiniti modi per soddisfarlo e tentando di evitarlo, incominceremmo a scorgere cosa si nasconde dietro le quinte. Aprendo una devastante prospettiva che capovolge un po’ tutto nella nostra concezione: dove realizzazione diventa una limitazione, completamente trasformata in una trappola. E fa tutto questo con una intensità che confonde i nostri pensieri e ci costringe a concentrarci solo sul presente.( It opens up a devastating perspective where everything is turned on its head: where fulfilment becomes a limitation, accomplishment turns into a trap. And it does this with an intensity that scrambles our thoughts and forces us straight into the present).
Il poema di Parmenide non è fatto per accademici. Non troviamo niente di dotto in esso. La parola “studioso( scholar)” significa, letteralmente, una donna o uomo agiato. Gli studiosi sono persone che hanno molto tempo a disposizione, anche quando sono occupati: tempo da perdere, tempo per uccidere. Ma comprendere Parmenide è una cosa seria. Richiede la stessa intensità e urgenza di cui egli parla- l’urgenza del nostro stesso essere.
Per cui, non c’è affatto tempo da perdere.


6.

In questo strano mondo di miti ed esseri mitici evocato da Parmenide può sembrare, all’inizio, che niente ci appaia familiare.
Ciò che egli ci sta descrivendo è un viaggio alla fine di tutti viaggi: un cammino oltre qualunque esperienza umana ordinaria, “molto lontano dal cammino degli uomini”. Ma è naturale voler ridurre qualcosa di inusuale in termini più familiari. Fondamentalmente è successo che una tremenda quantità di energia è stata usata per trovare delle giustificazioni al viaggio.
È stato accantonato come un espediente retorico, una allegoria; come un vago tentativo poetico descrivendo come il filosofo abbandona la confusione per la chiarezza, l’oscurità per la luce.
Chiaramente noi siamo liberi di usare qualunque espediente cercando di sbarazzarci del viaggio di Parmenide. Ma prima di fare ciò, sarebbe una buona idea guardare cosa egli abbia detto.
E il fatto è che non c’è niente di vago in tutto ciò. Anche quando sembra vago, ciò è dovuto ad uno scopo molto particolare. Ogni immagine gioca la sua parte nell’insieme completamente coerente. Ogni singolo dettaglio è inserito in un contesto particolare.
Parmenide viene guidato nel suo viaggio da giovani fanciulle., le Figlie del Sole. Esse provengono dalle dimore della Notte ben noto nel mito Greco come le profondità dell’oscurità agli estremi angoli dell’esistenza, accanto al grande baratro chiamato Tartaro, dove terra e cielo hanno le loro radici. Questo è il luogo dove il mondo conosciuto si ricongiunge al mondo infero; dove tutti gli opposti che noi sentiamo e sperimentiamo mentre viviamo si ricongiungono.
Questo è il luogo dove il sole ritorna a casa con la sua famiglia per riposare.
Per quanto riguarda i cancelli attraverso i quali Parmenide viene condotto lungo i sentieri della Notte e del Giorno, essi sono i cancelli che aprono al mondo sotterraneo- separando il mondo a noi familiare dall’enorme baratro che si nasconde dietro ad esso.
E Giustizia, a guardia dei cancelli, è una immagine ancora familiare. Essa è la Dea che governa il mondo sotterraneo: la spietata fonte dell’ordine, l’origine di tutte le leggi.
Per quanto riguarda la Dea anonima che saluta Parmenide, non vi è tempo per dire qualcosa che Le riguarda.
In breve, le Figlie del Sole sono venute a prenderlo dal mondo dei vivi per riportarlo proprio nel loro mondo. Questo non è un viaggio dalla confusione alla chiarezza; dall’oscurità alla luce. Al contrario il viaggio che Parmenide ci sta descrivendo è esattamente il contrario. Egli sta entrando nel cuore dell’ultima notte dove nessun essere umano è in grado di sopravvivere senza la protezione divina. Egli viene condotto nel cuore del mondo sotterraneo, il mondo dei morti.
Ma c’è una richiesta che doveva essere esaudita: una domanda fondamentale.
Cosa significava per una persona in carne ed ossa nell’antica Grecia- non un eroe mitico o leggendario- fare un viaggio consapevolmente, intenzionalmente dentro un altro mondo?
Ed in particolare: come potrebbe qualcuno scendere o pretendere di giungere al mondo infero mentre è ancora in vita, mettersi in contatto con i poteri soprannaturali che là giacciono, imparare da essi, per poi far ritorno al mondo dei vivi?
La risposta è estremamente semplice.
Esisteva una particolare e affidabile tecnica che veniva usata da diversi gruppi di persone per affrontare il viaggio nel mondo dei morti; per morire prima di morire.
Implicava isolarsi in un luogo buio, sdraiati in un assoluto silenzio, rimanendo immobili per ore o giorni. Prima sprofonderà nel silenzio il corpo, poi eventualmente la mente. E proprio questa calma che permette l’accesso nell’altro mondo, un mondo dell’assoluto paradosso; che conduce ad un totale e diverso stato di consapevolezza. Qualche volta questo stato veniva descritto come della stessa natura di un sogno. Qualche volta veniva associato ad un sogno, seppure non fosse un sogno, ma come realmente ad un terzo tipo di coscienza comunque diverso sia del risveglio sia dell’addormentarsi.
Erano soliti usare un linguaggio tecnico associato alla procedura; una completa geografia mitica. E vi era un nome specifico che i Greci, e poi i romani, diedero a questa tecnica.
Essi la chiamarono incubazione.


7.

Nel momento in cui si è giunti a questo fondamentale collegamento tra il viaggio di Parmenide e la pratica dell’incubazione, le cose cominciano a schiarirsi.
Per esempio quando Parmenide incontra la Dea che lo istruirà su tutto, egli potrà procedere secondo una formulazione puntuale riscontrabile nel resto del poema, la Dea lo designerà immediatamente come “kouros”: parola che può essere tradotta come "giovanotto", "ragazzo."
Spesso gli studiosi chiedendosene il motivo, hanno escogitato le più impensabili soluzioni. Ma la risposta è molto semplice, e nello stesso tempo molto sottile.
Era già risaputo che il termine kouros non riguardava soltanto l’età fisica. Ma si rifaceva ad un complesso di tradizioni e rituali associati al coraggio, virilità, iniziazione, e in particolare, con un viaggio iniziatico per accedere in un altro mondo.
Quest’altro mondo è il mondo degli dei dove il kouros trova una fonte di nutrimento e di guida che gli esseri umani non riusciranno mai a dargli; dove se egli è fortunato, protetto dalla divinità, potrà incontrare la divinità che diventerà il suo nume tutelare, maestra e guida.
E ci sarebbe un altro Greco da menzionare accanto a Parmenide.
Il suo nome era Epimenide e proveniva da Creta, un isola situata nel Mediterraneo occidentale non molto lontano dalla costa dell’attuale Turchia. Egli, anche, scrisse in versi; fece un resoconto di ciò che aveva imparato nell’oltretomba. E spesso è stato notato che- proprio come Parmenide- egli ritenne importante descrivere i suoi incontri diretti con la Giustizia e la Verità in un altro mondo.
Le leggende che lo riguardano riferiscono che dopo questi incontri Epimenide divenne famoso per il suo ruolo di legislatore: conosciuto come un riformatore o qualcosa di simile. Tutto ciò non coinciderebbe con Parmenide che, secondo le fonti più attendibili, divenne per la propria città un famoso legislatore. Al contrario, più avanti vedremo l’importanza di un simile dettaglio.
E sull’isola di Creta gli abitanti designavano Epimenide, nel proprio dialetto, come “Kouros”. Anche questo, è molto di più di una coincidenza. Veniamo a conoscenza che l’antica tradizione del “kouros” a Creta aveva diretti collegamenti con le antiche tradizioni di un altro luogo in particolare.
Era Focea- la Madrepatria degli antenati di Parmenide prima che salpassero verso occidente per stabilirsi a Velia.
Ma oltre alla designazione di “kouros”, di riformatore o legislatore, vi è molto di più.
Epimenide aveva inoltre grande fama di essere un guaritore di successo e un profeta.
Si racconta poi che egli declamava i suoi poemi per il bene di guarire. Le riforme da lui varate trovavano la loro origine nella profezia: con le sue capacità riusciva a vedere come la giustizia trovava esecuzione in un altro mondo. E il fine di queste riforme era guarire le città così come i suoi abitanti.
Vi era una parola che gli antichi greci generalmente usavano per descrivere qualcuno come Epimenide. Essa era “Iatromantis”, un nome che semplicemente significava “profeta guaritore”.
E la tradizione ci racconta di come Epimenide diventa un “Iatromantis” dopo aver dormito per anni in una grotta facendosi trasportare, mentre giaceva là completamente immobile, dentro l’inusuale mondo della Giustizia e della Verità.
In altre parole: egli aveva imparato tutto ciò che conosceva attraverso la pratica dell’incubazione.

Hannah Arendt: La vita della mente





















Noi siamo del mondo e non semplicemente in esso
Apparire significa sempre parere agli altri e questo parere varia secondo il punto di vista e la prospettiva degli spettatori. In altre parole, ogni cosa che appare, in virtù del suo apparire, acquisisce una sorta di travestimento che può in verità — benché non necessariamente — dissimularla o deformarla. Il parere corrisponde al fatto che ogni apparenza, ad onta della propria identità, è percepita da una pluralità di spettatori.

L’impulso all’autoesibizione — reagire con il mostrarsi all’effetto schiacciante dell’essere mostrati — sembra comune a uomini e animali. E allo stesso modo in cui l’attore dipende per il suo ingresso in scena dal palcoscenico, dalla compagnia e dagli spettatori, così ogni essere vivente dipende da un mondo che appare quale luogo per la propria apparizione, dai suoi simili per recitare la sua parte con loro, dagli spettatori perché la sua esistenza sia ammessa e riconosciuta.

Le attività spirituali in virtù delle quali ci distinguiamo dalle altre specie animali, benché presentino grandi differenze, hanno però tutte in comune un ritrarsi dal mondo quale appare e un ripiegamento verso l’io. Ciò non comporterebbe nessun grave problema se noi fossimo semplici spettatori, creature divine gettate nel mondo per vegliare su di esso, per goderne o esserne divertiti, ma pur sempre in possesso di un’altra regione come nostro habitat naturale. Il fatto, però, è che noi siamo del mondo e non semplicemente in esso: anche noi siamo apparenze, proprio in virtù del nostro arrivare e partire, apparire e scomparire; e sebbene provenienti da nessun luogo giungiamo equipaggiati di tutto punto per far fronte a qualunque cosa ci appaia, e prendere parte al teatro del mondo.

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 102

Come ci si presenta agli altri
L’uomo coraggioso non è colui nella cui anima tale sentimento sia assente, né colui che sappia vincerlo una volta per tutte, bensì chi ha deciso che la paura non è quanto vuole mostrare. Il coraggio può divenire poi una seconda natura o un’abitudine, ma non nel senso che alla paura si sostituisce la sua assenza, come se quest’ultima potesse a sua volta diventare un sentimento. Simili scelte sono determinate da fattori svariati; in molti casi sono predeterminate dalla cultura in cui nasciamo — le compiamo perché desideriamo piacere agli altri. Ma esistono anche scelte non ispirate dal nostro ambiente: vi siamo indotti dal desiderio di piacere a noi stessi o di stabilire un esempio, cioè dal desiderio di persuadere gli altri ad apprezzare ciò che piace a noi. Qualunque sia il motivo, il successo e il fallimento dell’operazione di autopresentazione dipendono dalla coerenza, e perciò dalla durata, dell’immagine che in questo modo presentiamo al mondo.

Siccome le apparenze si presentano sempre nelle vesti del parere, simulazione e inganno intenzionale da parte dell’attore, errore ed illusione da parte dello spettatore figurano, inevitabilmente, tra le loro intrinseche potenzialità. L’autopresentazione si distingue dall’autoesibizione grazie alla scelta attiva e consapevole dell’immagine mostrata: l’esibirsi non ha altra scelta che mostrare tutte le proprietà in possesso di un essere vivente. L’autopresentazione non sarebbe invece possibile senza un certo grado di consapevolezza di sé, capacità connaturata al carattere riflessivo delle attività spirituali che trascende, chiaramente, la semplice coscienza che con ogni probabilità l’uomo ha in comune con gli animali superiori.

Ogni virtù comincia quando le rendo un omaggio con il quale esprimo il mio compiacermi di essa. L’omaggio implica una promessa al mondo, a coloro cui io appaio, di agire in armonia con questo compiacermi ed è l’infrazione di questa promessa implicita che caratterizza l’ipocrita. In altre parole, l’ipocrita non è un malvagio che si compiace del vizio e nasconde il suo compiacimento a chi lo circonda. La prova che rivela l’ipocrita è l’antico motto socratico «Sii quale desideri apparire», che significa appari sempre come desideri apparire agli altri anche se ti capita di esser solo e di non apparire che a te stesso. Nel prendere tale decisione, non mi trovo semplicemente a reagire a questa o a quella qualità datami in sorte: sto compiendo un atto di scelta deliberata tra le molteplici potenzialità di condotta che il mondo mi offre.

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 118


I pensieri non hanno nulla delle proprietà che possono attribuirsi all’io o a una persona
Se rifletto sulla relazione di me con me stesso che governa l’attività di pensiero, si direbbe che ogni cosa avvenga proprio come se i miei pensieri fossero «semplici
rappresentazioni», o manifestazioni di un io che in sé rimane eternamente celato, poiché ovviamente i pensieri non hanno nulla delle proprietà che possono attribuirsi all’io o a una persona. L’io che pensa è la vera «cosa in sé» di Kant: esso non appare agli altri e, diversamente dall’io della consapevolezza di sé, non appare a se stesso, e tuttavia non è nulla.

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 125

Alla morte il mondo non si altera ma cessa
Sarebbe spettato a Wittgenstein, infine, che si era prefisso di indagare «in che misura il solipsismo sia una verità» e ne divenne così il più eminente esponente contemporaneo, di dare formulazione all’illusione esistenziale soggiacente a tutte queste teorie: «Alla morte il mondo non si altera ma cessa». «La morte non è un evento della vita; la morte non si vive». Il che costituisce la premessa di fondo di ogni pensiero solipsistico.

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 133

Pensare, cioé speculare in modo da attribuire significati all’ignoto o all’inconoscibile
Una volta, a proposito di Platone, Kant ebbe a osservare «che non è per nulla insolito, mediante il confronto dei pensieri che un autore espone sul suo oggetto... scoprire che lo intendiamo meglio che egli non intendesse se medesimo. Come se non avesse determinato abbastanza il suo concetto, egli talvolta parlava, o anche pensava, contrariamente alla sua stessa intenzione» che, naturalmente, si applica anche alla stessa opera kantiana).

Se Kant non avesse tolto i ceppi al pensiero speculativo, l’idealismo tedesco e i suoi sistemi metafisici difficilmente avrebbero veduto la luce. Altrettanto vero, è che il nuovo tipo di filosofi — Fichte, Schelling, Hegel — non gli sarebbe piaciuto. Emancipati, grazie a Kant, dal vecchio dogmatismo scolastico e dai suoi sterili esercizi, incoraggiati proprio da lui ad abbandonarsi al pensiero speculativo, essi presero piuttosto lo spunto da Descartes, si misero a caccia di certezze, confusero una volta di più la linea di demarcazione tra pensiero e conoscenza, sino a credere in tutta serietà che i risultati delle loro speculazioni possedessero lo stesso genere di validità dei risultati dei processi conoscitivi.

Sebbene gli uomini siano esistenzialmente del tutto condizionati — limitati dall’arco di tempo tra la nascita e la morte, aggiogati per vivere alla fatica e al lavoro, stimolati a creare opere al fine di sentirsi a casa loro nel mondo, spinti all’azione per trovare il proprio luogo nella società dei loro simili — possono trascendere spiritualmente tutte queste condizioni, ma solo spiritualmente, si badi, non nella realtà o nel sapere e nella conoscenza che li fanno capaci di esplorare l’esser-reale del mondo ed il proprio. Essi possono giudicare positivamente o negativamente le realtà entro cui sono nati e da cui sono insieme condizionati; possono volere l’impossibile, ad esempio, una vita eterna; possono pensare, cioé speculare in modo da attribuire significati all’ignoto o all’inconoscibile. E sebbene tutto questo non possa cambiare immediatamente la realtà — nel nostro mondo non c’è in realtà opposizione più netta e radicale di quella tra il pensare ed il fare — i principi in base ai quali si agisce, e i criteri con cui si giudica e si conduce la propria vita, dipendono in ultima analisi dalla vita della mente. Essi dipendono, insomma, dall’esecuzione di queste operazioni spirituali manifestamente inutili, che non portano a nessun risultato e «non procurano immediatamente forze per l’azione» (Heidegger). L’assenza di pensiero costituisce effettivamente un fattore potente degli affari umani, in termini statistici il più potente di tutti, non solo nella condotta della moltitudine, ma nella condotta di tutti. L’urgenza stessa, la a-scholia, degli affari umani esige giudizi provvisori o vuole che ci si affidi al costume e all’abitudine, e quindi ai pregiudizi.

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 153

La caratteristica principale delle attività della mente è la loro invisibilità
Nella prospettiva del mondo delle apparenze e delle attività da esso condizionate, la caratteristica principale delle attività della mente è la loro invisibilità. A rigore, esse non appaiono mai, benché si manifestino all’io che pensa, che vuole, che giudica, il quale è consapevole di essere attivo e tuttavia manca della capacità o dello stimolo per apparire come tale.

In altri termini, all’invisibile che si manifesta al pensiero corrisponde una facoltà umana che, diversamente da altre facoltà, non solo è invisibile finché è latente, allo stato di semplice potenzialità, ma permane non manifesta anche quando sia pienamente in atto.

Per questo verso, come per altri, la mente è decisamente altro dall’anima, che costituisce la sua principale concorrente al rango di sovrana della nostra vita interiore, non visibile. L’anima, da cui sgorgano le nostre passioni, i nostri sentimenti e le nostre emozioni, è un vortice più o meno caotico di eventi che noi non mettiamo in atto, ma patiamo e che in circostanze di forte intensità possono travolgerci, come avviene con il dolore o il piacere; l’invisibilità dell’anima assomiglia a quella degli organi interni del corpo, di cui avvertiamo il funzionamento o la disfunzione senza essere in grado di controllarli. La vita della mente, al contrario, è pura attività, un’attività che, alla stregua delle altre, può essere avviata o interrotta a volontà. Per di più, quantunque la loro sede sia invisibile, le passioni posseggono una propria espressività: si arrossisce per la vergogna o l’imbarazzo, si impallidisce di paura o di rabbia, si può essere raggianti di felicità o aver l’aria abbattuta, ed è necessario un notevole esercizio di auto-controllo per impedire alle passioni di mostrarsi. La sola manifestazione esteriore della mente è la distrazione, un’evidente noncuranza del mondo circostante, qualcosa di completamente negativo che non accenna in alcun modo a ciò che sta realmente accadendo dentro di noi.

Nessun atto della mente, meno che mai l’atto di pensare, si appaga del suo oggetto quale gli è dato dalla vita o dal mondo. Esso trascende sempre la mera datità di qualsiasi cosa abbia suscitato la sua attenzione, per trasformarla in ciò che Pier Giovanni Olivi, il filosofo francescano della Volontà attivo nel tredicesimo secolo, chiamava un “esperimento dell’io con se stesso”.

Essere presso di sé e intrattenere rapporti solo con se stessi costituiscono la caratteristica principale della vita della mente.

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 156

L’io pensante scomparirà non appena il mondo reale ritorni ad imporre se stesso
Di fatto, io sono consapevole delle facoltà della mente e della loro riflessività solo finché dura la loro attività. E come se gli organi stessi del pensiero, della volontà, del giudizio sorgessero alla luce soltanto quando penso, voglio o giudico: allo stato latente, ammesso che simile latenza esista, anteriormente all’attualizzazione essi non sono accessibili all’introspezione. L’io pensante, del quale sono perfettamente conscio finché dura l’attività di pensiero, scomparirà come se fosse un puro miraggio non appena il mondo reale ritorni ad imporre se stesso.

E’ un ritiro non tanto dal mondo — solo il pensiero per la sua tendenza a generalizzare, cioè il suo interesse nel generale rispetto al particolare, tende a ritrarsi completamente dal mondo — quanto dal suo essere presente ai sensi. Ogni atto spirituale si fonda sulla facoltà della mente di aver presente a se stessa ciò che è assente ai sensi. La rappresentazione (nel senso di ri-presentazione) che rende presente ciò che di fatto è assente, costituisce la dote incomparabile della mente, e poiché la nostra intera terminologia relativa alla mente si basa su metafore tratte dalla esperienza della visione, tale dote ha nome immaginazione, definita da Kant «la facoltà d’intuizione anche senza la presenza dell’oggetto». La facoltà della mente di rendere presente ciò che è assente, naturalmente non è per nulla circoscritta alle immagini mentali di oggetti assenti: in un senso assai più generale, la memoria immagazzina e tiene a disposizione del ricordo tutto ciò che non è più, mentre la volontà anticipa tutto ciò che il futuro può apportare, ma non è ancora. Solo in virtù della capacità della mente di rendere presente ciò che è assente possiamo dire «non più» e costituire a noi stessi un passato, possiamo dire «non ancora» e predisporci a un futuro. Ma ciò non è possibile alla mente se non dopo che si sia ritratta dal presente e dalle urgenze della vita quotidiana. Così, per volere, la mente deve ritrarsi dall’immediatezza del desiderio che, senza riflettere e senza riflessività, protende la mano per impadronirsi dell’oggetto desiderato: la volontà non ha che fare con oggetti, ma con progetti; per esempio, con la disponibilità futura di un oggetto che, nel presente, essa può anche non desiderare.

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 159

L’immaginazione trasforma un oggetto visibile in un’immagine invisibile
L’oggetto del pensiero è differente dall’immagine, come l’immagine differisce dall’oggetto visibile del senso di cui è semplice rappresentazione. E’ a causa di questa duplice trasformazione che il pensiero «di fatto va anche oltre», ben oltre la sfera di ogni possibile immaginazione, «quando la ragione proclama l’infinità del numero che nessuna visione nel pensiero di cose corporee ha mai afferrato» o «ci insegna che anche i corpi più piccoli sono divisibili all’infinito». L’immaginazione, pertanto, che trasforma un oggetto visibile in un’immagine invisibile, idonea a essere immagazzinata nella mente, costituisce la condizione sine qua non per fornire alla mente convenienti oggetti di pensiero; ma tali oggetti di pensiero, a loro volta, vengono alla luce solo quando la mente ricorda in modo attivo e deliberato, raccoglie e tra-sceglie dal deposito della memoria tutto ciò che desti il suo interesse in maniera sufficiente da causare concentrazione. In queste operazioni la mente apprende come affrontare e trattare le cose che sono assenti, e si prepara insieme ad «andare oltre», verso la comprensione di cose che sono per sempre assenti, di cui non può esservi ricordo perché non sono mai state presenti all’esperienza sensibile.

Tutte le questioni metafisiche che la filosofia ha assunto come propri temi specifici scaturiscono da ordinarie esperienze del senso comune; «il bisogno della ragione» — la ricerca di significato che spinge gli uomini a formulare tali questioni — non differisce in nulla dal bisogno umano di raccontare la storia di un evento di cui si è stati testimoni o dal bisogno di scrivere poesie su di esso. In tutte queste attività riflessive gli uomini si muovono fuori del mondo delle apparenze e fanno uso di un linguaggio gremito di parole astratte che, naturalmente, prima di divenire la speciale moneta della filosofia, sono state a lungo parte integrante del linguaggio quotidiano. Per il pensiero, allora, sebbene non per la filosofia in senso tecnico, il ritrarsi dal mondo delle apparenze rappresenta la sola precondizione essenziale. Perché noi si pensi a qualcuno, questi deve essere lontano dalla nostra presenza; finché si è con lui, non si pensa né a lui né su di lui; il pensiero implica sempre il ricordo: ogni pensare è propriamente un ri-pensare. Può certo accadere che si cominci a pensare su qualcuno o qualcosa ancora presenti, nel qual caso ci siamo allontanati clandestinamente da ciò che ci circonda, ci stiamo comportando come se fossimo già assenti.

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 161

Nell’atto di pensare io non sono dove sono in realtà: non mi circondano oggetti sensibili, ma immagini invisibili a chiunque altro
Mentre si pensa, non si ha nozione della propria corporeità, tale è l’esperienza che indusse Platone ad attribuire all’anima l’immortalità quando si fosse di-partita dal corpo, che indusse Descartes a concludere che «l’anima può pensare senza il corpo, salvo che, fino a quando sia ad esso congiunta, può benissimo essere molestata nelle sue operazioni dalla cattiva disposizione degli organi corporei».

La Memoria, Mnemosyne, è la madre delle Muse e il ricordo, l’esperienza di pensiero più frequente e insieme fondamentale, ha che fare con cose assenti, scomparse dai sensi. Pure, l’assente che è evocato e reso presente alla mente — una persona, un evento, un monumento — non può apparire nel modo in cui appariva ai sensi, come se il ricordo equivalesse a una sorta di stregoneria. Per apparire soltanto alla mente, esso deve dapprima essere de-sensibiizzato, e alla capacità di trasformare oggetti sensibili in immagini diamo il nome di «immaginazione». Senza tale facoltà, che rende presente ciò che è assente in forma de-sensibilizzata, nessun processo, nessuna sequenza di pensiero sarebbero possibili. Quindi, il pensiero è «fuori dell’ordine» non solo perché arresta tutte le altre attività così indispensabili alle faccende del vivere e del sopravvivere, ma perché capovolge tutti i rapporti ordinari: ciò che è vicino e appare direttamente ai sensi è adesso distante, ciò che è lontano è effettivamente presente. Nell’atto di pensare io non sono dove sono in realtà: non mi circondano oggetti sensibili, ma immagini invisibili a chiunque altro. E come se mi fossi ritirato in una sorta di terra di nessuno, la terra dell’invisibile, di cui non saprei nulla se non mi fosse data questa facoltà di ricordare e di immaginare. Il pensare annulla le distanze, quelle temporali non meno delle spaziali. Posso anticipare il futuro e pensano come se fosse già presente, posso ricordare il passato come se non fosse scomparso.

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 168

Pensare, le attività della mente, la tendenza autodistruttiva
Kant scriveva: «non condivido l’opinione... secondo cui non si dovrebbe dubitare una volta che ci si sia convinti di qualcosa. Nella filosofia pura ciò è impossibile. La nostra mente ne prova un‘avversione naturale».

Abbiamo considerato fin qui le caratteristiche salienti dell’attività di pensiero: il suo ritrarsi dal mondo delle apparenze del senso comune, la tendenza autodistruttiva rispetto ai suoi stessi risultati, la sua riflessività e la consapevolezza di un’attività pura che l’accompagna, senza dimenticare la circostanza bizzarra e inquietante che si possono conoscere le proprie facoltà spirituali solo finché tale attività si protrae: ciò significa che il pensiero stesso non può instaurarsi saldamente come la suprema proprietà della specie umana.

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 173

Le parole, significanti in se stesse, e i pensieri si rassomigliano. Il discorso, quindi, benché in ogni caso «suono significante» non è necessariamente un enunciato o una proposizione in cui siano in giuoco verità e falsità, essere e non essere. Si è già veduto, del resto, come quest’ultimo non sia affatto l’unico caso possibile: una preghiera è si un logos, ma non è né vera né falsa. Dunque, implicita nell’impulso a parlare non è necessariamente la ricerca di verità, bensì la ricerca di significato.

I pensieri non hanno bisogno di essere comunicati per prodursi, ma non possono prodursi se non li si enuncia, a bocca chiusa o a voce alta nel dialogo, secondo il caso.

La funzione di tale discorso senza voce — «ragionare silenziosamente con se stessi» secondo Anselmo di Canterbury — è di venire a capo di tutto ciò che è dato ai sensi nelle apparenze quotidiane; il bisogno di ragione consiste nel rendere conto di tutto ciò che sia o che sia avvenuto. A ciò sospinge non la sete di conoscenza — il bisogno può manifestarsi in connessione con fenomeni ben noti e del tutto familiari — ma la ricerca di significato. Dare un nome alle cose, la pura e semplice creazione di parole, è il modo dell’uomo di far proprio e, per dir così, disalienare un mondo al quale, dopo tutto, ognuno di noi è nato come nuovo venuto e come straniero.

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 184

Le metafore e il cervello
Ogni linguaggio filosofico e grandissima parte del linguaggio poetico sono metaforici, ma non nel senso semplicistico della definizione di «Metafora» come «figura di discorso nella quale un nome o un termine descrittivo è trasferito a un oggetto differente, quantunque analogo, da quello cui è applicabile in senso proprio».

Ogni metafora porta allo scoperto «una percezione intuitiva della somiglianza in cose dissimili» e, secondo Aristotele, rappresenta proprio per questa ragione un «segno del genio», «di gran lunga la cosa più grande».

Secondo Kant questo parlare per analogie, in linguaggio metaforico, è il solo mezzo attraverso il quale la ragione speculativa, che qui chiamiamo pensiero, può manifestare se stessa. Al pensiero senza immagini, «astratto»,. la metafora fornisce un’intuizione tratta dal mondo delle apparenze, la cui funzione è di «provare la realtà

dei nostri concetti» annullando dunque, per così dire, quel ritrarsi dal mondo delle apparenze che è la pre-condizione delle attività spirituali.

Tutti i termini filosofici sono metafore, analogie, per così dire, congelate, il cui significato autentico si dischiude quando la parola sia riportata al contesto d’origine, certo presente in modo vivido e intenso alla mente del primo filosofo che la impiegò. Allorché Platone introdusse nel linguaggio filosofico le parole di tutti i giorni «anima» e «idea» — connettendo un organo invisibile dell’uomo, l’anima, con qualcosa d’invisibile presente nel mondo dell’invisibile, le idee — doveva tuttavia sentir risuonare in quelle parole il loro uso nel linguaggio pre-fiosofico ordinario. Psyche è il «soffio vitale» esalato dal morente, e idea, o eidos, è la sagoma o il modellino che l’artigiano deve avere innanzi agli occhi della mente prima di iniziare la sua opera — un’immagine che sopravvive al processo di fabbricazione così come trascende l’oggetto fabbricato e può fungere da modello ancora una volta e sempre di nuovo, acquisendo così una durata senza fine che la rende idonea all’eternità nel cielo delle idee. L’analogia soggiacente alla dottrina platonica dell’anima è la seguente: come il soffio vitale è in rapporto col corpo che abbandona, cioè col cadavere, così, d’ora innanzi, si reputerà che l’anima sia in rapporto col corpo vivente. E l’analogia soggiacente alla dottrina delle idee può essere ricostruita in modo simile: come l’immagine mentale dell’artigiano dirige la sua mano nel corso della fabbricazione e costituisce la misura della riuscita o dell’insuccesso dell’oggetto, allo stesso modo tutti gli elementi dati materialmente e sensibilmente nel mondo delle apparenze si riferiscono a uno schema invisibile, situato nel cielo delle idee, e sono valutati in rapporto ad esso.

Nessuno prima di Aristotele aveva usato in un senso diverso da accusa la parola katègoria, che designava ciò che veniva detto contro un imputato nel corso delle procedure giudiziarie”. Nell’uso aristotelico, questa parola si trasforma in qualcosa come «predicato», sulla base della seguente analogia: proprio come una imputazione (kategoreuein ti tinos) fa discendere (kata) su un imputato qualcosa di cui lo si accusa, e che perciò gli appartiene, così il predicato attribuisce al soggetto la qualità appropriata.

Leggiamo così in un saggio poco noto di Ernest Fenollosa, che «la metafora è ... la vera sostanza della poesia»; senza di essa, «non vi sarebbe alcun ponte su cui passare dalla verità minore del visibile a quella maggiore dell’invisibile».

Il primo a scoprire questo strumento poetico fu Omero, i cui due poemi pullulano di espressioni metaforiche di ogni sorta. In tale embarras de richesses scelgo il passo dell’Iliade in cui il poeta paragona l’assalto straziante della paura e del dolore nel petto degli uomini all’attacco combinato dei venti da più direzioni sulle acque del mare”. Pensate a queste tempeste che conoscete così bene, sembra dire il poeta, e conoscerete qualcosa della paura e del dolore. Ma è significativo che il contrario non sia vero. Si pensi quanto si vuole al dolore e alla paura, ma non si saprà nulla dei venti e del mare: il paragone ha il palese scopo di dire che cosa il dolore e la paura fanno al cuore dell’uomo, è inteso cioè a illuminare un’esperienza che non appare. Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 192

La teoria dei «due mondi» è sì un’illusione metafisica, ma non è né arbitraria né accidentale: è l’illusione più plausibile che abbia mai afflitto l’esperienza del pensare. Concedendosi all’uso metaforico, il linguaggio ci permette di pensare, cioè di avere commercio con il non sensibile, proprio perché consente di «portare oltre» — metapherein — le nostre esperienze sensibili. Non vi sono due mondi proprio perché la metafora li unisce.

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 197

Nei Paradigmen zu einer Metaphorologie, Hans Blumenberg ha rintracciato, lungo la storia secolare del pensiero occidentale, la vicenda di certe figure di discorso assai comuni, come la metafora dell’iceberg o le varie metafore marine, per scoprire, quasi incidentalmente, sino a qual punto alcune pseudoscienze tipicamente moderne debbano la propria plausibilità all’evidenza apparente della metafora, con cui surrogano l’evidenza manchevole dei dati di fatto. Il suo esempio principale è la teoria della coscienza della psicoanalisi, in cui la coscienza è vista come la punta di un iceberg, semplice indizio della massa di inconscio fluttuante sotto la superficie. Non solo tale teoria non è mai stata dimostrata, ma nei suoi stessi termini è indimostrabile: nell’istante stesso in cui un frammento di inconscio raggiunge la cima dell’iceberg è divenuto conscio, perdendo tutte le proprietà della sua supposta origine. Eppure, l’evidenza della metafora dell’iceberg è a tal punto schiacciante che alla teoria non occorre né argomentazione né dimostrazione.

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 200

Il senso comune
Tra le peculiarità rilevanti dei nostri sensi c’è il fatto che non possono tradursi l’uno nell’altro — nessun suono può essere visto, nessuna immagine udita, e così via —, benché li colleghi il senso comune, che per questa sola ragione è il più ampio. A questo proposito si ricorderà la definizione di Tommaso d’Aquino: «la facoltà unica [che] si estende a tutti gli oggetti dei cinque sensi», In corrispondenza o in conformità col senso comune, il linguaggio denomina un oggetto con il suo nome comune: tale comunanza non solo costituisce il fattore determinante della comunicazione intersoggettiva — lo stesso oggetto è percepito da persone differenti ed è loro comune — ma serve parimenti a identificare un dato che appare in modo completamente diverso a ognuno dei cinque sensi: duro o morbido al tatto, dolce o amaro al gusto, scuro o luminoso allo sguardo, risuonante in diversi toni all’orecchio. Nessuna di tali sensazioni può essere descritta adeguatamente con le parole. E i sensi della conoscenza, vista e udito, non hanno con le parole un’affinità tanto più stretta dei sensi inferiori. Qualcosa odora come una rosa, ha il sapore di una zuppa di piselli, è soffice come il velluto. Più in là non si può andare: «una rosa è una rosa è una rosa».

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 207

Se il pensiero, guidato dalla vecchia metafora della vista, fraintendendo se stesso e la propria funzione, si aspetta dalla sua azione la «verità», tale verità non è soltanto ineffabile per definizione. «Come fanciulli che, chiudendo le mani, cercano di acchiappare il fumo, i filosofi vedono così spesso involarsi davanti a loro l’oggetto che pretendevano di afferrare» — così, con precisione estrema, l’ultimo filosofo che credesse fermamente nell’«intuizione», Bergson, descriveva ciò che realmente avveniva ai pensatori di quella scuola. E la ragione dello «scacco» è semplicemente che nulla di espresso in parole può mai attingere l’immobilità di un oggetto della pura contemplazione. A paragone dell’oggetto della contemplazione, il significato, che si può dire e di cui si può parlare, è sfuggente: se il filosofo vuole vederlo e afferrarlo esso «si volatilizza».

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 210

Se il pensiero è fuori dell’ordine è proprio perché la ricerca di significato non dà luogo a risultati finali che sopravviveranno all’attività stessa, che continueranno ad avere senso dopo che l’attività è giunta alla fine. In altre parole, benché manifesto all’io che pensa, il piacere di cui parla Aristotele è ineffabile per definizione. La sola metafora che resta, la sola che sia possibile concepire per la vita della mente, è la sensazione della vitalità. Privo del soffio vitale il corpo umano è un cadavere; priva del pensiero la mente dell’uomo è morta.

Se il pensare fosse un’operazione cognitiva dovrebbe seguire un moto rettilineo, che parta dalla ricerca del proprio oggetto e finisca con la sua cognizione. Se lo si combina con la metafora della vitalità, il movimento circolare di Aristotele evoca una ricerca di significato che per l’uomo in quanto essere pensante si accompagna alla vita e finisce solo con la morte. Il movimento circolare è una metafora ricavata dal processo vitale che, pur svolgendosi dalla nascita alla morte, ruota in cerchio su se stesso finché l’uomo è vivo.

Hegel afferma: «La filosofia forma un circolo ... è una serie che non è sospesa in aria; non è qualcosa che cominci dal nulla; al contrario, essa ritorna in cerchio su se stessa». E la stessa idea s’incontra alla fine di Che cos ‘è la metafisica?, là dove Heidegger formula l’«interrogazione fondamentale della metafisica» come «Perché, in generale, c’è qualcosa e non piuttosto niente?» —per un verso la prima interrogazione del pensare, ma nello stesso tempo il pensiero a cui «sempre esso deve continuamente far ritorno oscillando».

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 213

Per di più, la metafora della vitalità rifiuta palesemente ogni risposta all’interrogazione inevitabile, «Perché pensiamo?», visto che non esiste risposta alla domanda «Perché viviamo?».

Nelle Ricerche filosofiche di Wittgenstein (scritte dopo che egli s’era persuaso dell’insostenibilità del precedente tentativo, compiuto nel Tractatus di comprendere il linguaggio, quindi il pensiero, come «raffigurazione della realtà» — «La proposizione è un’immagine della realtà. La proposizione è un modello della realtà quale noi la pensiamo») si trova un interessante gioco di pensiero che può forse aiutarci ad illuminare questa difficoltà. Egli si chiede: «A che scopo l’uomo pensa? ... L’uomo pensa perché il pensare ha dato buoni risultati? Perché pensa che sia vantaggioso pensare?» Ciò equivarrebbe a domandare: «Educa i figli perché ciò ha dato buoni risultati?». Si deve tuttavia riconoscere che «qualche volta si pensa perché la cosa ha dato buoni risultati», sottintendendo con il corsivo che solo «qualche volta» le cose stanno cosi. Quindi: «Come si potrebbe scoprire perché si pensa?» al che Wittgenstein risponde: «Spesso riusciamo a scorgere i fatti importanti solo dopo aver soppresso la domanda “perché?”, allora, nel corso delle nostre indagini, questi fatti ci conducono a una risposta. Proprio nel tentativo di sopprimere la domanda: “Perché pensiamo?”, affronterò ora la domanda: “Che cosa ci fa pensare?”

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 215

Che cosa ci fa pensare?
Il nostro quesito «Che cosa ci fa pensare?» non va in cerca cause né di scopi. Prendendo per scontato il bisogno umano di pensare, esso muove dall’assunto che l’attività di pensiero fa parte di quelle energeiai che, come suonare il flauto, hanno il loro fine in se stesse e non lasciano esteriormente nessun prodotto finale tangibile nel mondo in cui abitiamo. Non è possibile situare nel tempo il momento in cui si cominciò ad avvertire tale bisogno, ma l’esistenza stessa del linguaggio e tutto ciò che sappiamo delle età preistoriche e delle mitologie, ai cui autori non possiamo dare un nome, autorizzano a supporre, senza rischiare d’ingannarsi troppo, che tale bisogno sia coevo all’apparizione dell’uomo sulla terra. Ciò che è possibile datare, però, è l’inizio della filosofia e della metafisica, e ciò a cui possiamo dare un nome sono le risposte date via via alla nostra interrogazione nei diversi periodi della storia. Così parte della risposta dei greci si può trovare nella convinzione di tutti i pensatori ellenici che la filosofia consenta agli uomini mortali di soggiornare in prossimità delle cose immortali, e perciò di acquisire o di albergare in sé «l’immortalità nella misura più ampia ammessa dalla natura umana». Per il breve tempo in cui i mortali sopportino di consacrarsi ad esso, il filosofare li trasforma in creature simili agli dei, in «dei mortali» come vuole Cicerone.

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 217

Scrive Coleridge: “Hai mai innalzato la tua mente fino a considerare l’esistenza, in sé e per se, come pure atto d’esistere? Hai mai detto pensosamente a te stesso “E’!”, incurante in quel momento se innanzi a te ci fosse un uomo, un fiore o un granello di sabbia, senza riferirti, insomma, a questo e a quel modo o forma particolari di esistenza? Se sei realmente giunto a questo, avrai avvertito la presenza di un mistero, che deve aver fermato il tuo spirito in timore reverente e stupore. Le parole stesse “Non c’è nulla!” o “Ci fu un tempo in cui non c’era nulla!” sono una contraddizione in termini. C’è qualcosa in noi che respinge tali parole con l’intensità e l’istantaneità di una luce, come se esse parlassero contro l’evidenza di un fatto che è in ragione della sua stessa eternità.

Non essere, allora, è impossibile: essere, incomprensibile. Se hai fatto tua questa intuizione dell’esistenza assoluta, avrai insieme appreso che questo e non altro era ciò che nelle epoche più antiche afferrò gli animi più nobili, gli eletti tra gli uomini, con una sorta di sacro terrore. Questo appunto fece loro sentire per la prima volta dentro di sé il presagio di qualcosa di ineffabilmente più grande della loro natura individuale.”

Lo stupore platonico, lo shock iniziale che spinge il filosofo a intraprendere il suo cammino, è rivissuto nel nostro tempo allorché Heidegger, nel 1929, concluse una conferenza dal titolo «Che cos’è la Metafisica?» con le parole, già ricordate, «Perché c’é in generale qualcosa e non piuttosto niente?»; definendo quest’interrogazione «la questione fondamentale della metafisica».

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 234

Socrate non insegnava nulla, non aveva nulla da insegnare

Socrate non insegnava nulla per la semplice ragione che non aveva nulla da insegnare: era «sterile» come le levatrici greche, che dovevano aver oltrepassato l’età di procreare. (Siccome non aveva niente da insegnare, nessuna verità da trasmettere, fu accusato di non rivelare mai il suo modo di vedere, come si apprende da Senofonte, che lo difende da tale accusa). Si direbbe che, diversamente dai filosofi di professione, egli avvertisse l’impulso della verifica con i suoi simili per accertare se essi condividevano le sue perplessità; e questo è qualcosa di molto diverso dall’inclinazione a trovare soluzioni agli enigmi per poi dimostrarle agli altri.

Consideriamo brevemente le tre similitudini. In primo luogo, Socrate è un tafano: egli sa come pungolare i cittadini che, senza di lui, «continuerebbero indisturbati a dormire per il resto della loro vita» a meno che qualcuno non sopraggiunga a destarli. E per che cosa risvegliarli? Per pensare ed esaminare, un’attività senza la quale, a suo avviso, la vita non solo non varrebbe granché, ma non sarebbe nemmeno pienamente tale. (Su questo tema, nell’Apologia come altrove, Socrate dice pressoché l’opposto di quanto Platone gli fa dire nell’«apologia riveduta e corretta» del Fedone. Nell’Apologia, Socrate espone ai suoi concittadini i motivi per i quali egli dovrebbe vivere e, insieme, spiega perché, sebbene la vita gli sia «molto cara», non abbia paura della morte; nel Fedone spiega agli amici come la vita sia gravosa e perché sia felice di morire).

In secondo luogo, Socrate è una levatrice. Nel Teeteto egli afferma che proprio perché sterile lui stesso, sa come sgravare gli altri dei loro pensieri; inoltre, grazie alla sua sterilità, egli detiene l’esperienza della levatrice e sa decidere se il bambino è realmente tale o un semplice ovulo non fecondato di cui la gestante dev’essere purgata. Nei dialoghi, però, ben raramente qualcuno degli interlocutori di Socrate ha partorito un pensiero che non fosse un ovulo non fecondato e che Socrate considerasse degno di essere tenuto in vita. Egli faceva piuttosto ciò che Platone, nel Solista, certo pensando a Socrate, affermava dei sofisti: purgava la gente delle «loro opinioni», cioè di quei pregiudizi irriflessi che impedirebbero loro di pensare —aiutandoli, come diceva Platone, a sbarazzarsi di ciò che in loro è cattivo, le loro opinioni, senza tuttavia renderli buoni, senza dar loro la verità. Infine, sapendo che non sappiamo e tuttavia riluttante a lasciar correre come se nulla fosse, Socrate si blocca insistendo sulle proprie perplessità e come la torpedine, paralizzato lui stesso, paralizza chiunque venga a contatto con lui. A un primo sguardo, si direbbe, la torpedine è l’opposto del tafano: essa paralizza là dove il tafano punge e sveglia. E tuttavia ciò che può sembrare una paralisi dall’esterno — dal punto di vista degli affari umani ordinari — è sentito come la condizione suprema di attività e vitalità. A sostegno di ciò, malgrado la scarsità di prove documentarie relative all’esperienza di pensare, non mancano nel corso dei secoli diverse dichiarazioni di pensatori.

Dunque Socrate, tafano, levatrice, torpedine, non è un filosofo (non insegna nulla e non ha nulla da insegnare) né è un sofista, poiché non pretende di rendere gli uomini sapienti. Egli si limita semplicemente a mostrare loro che non sono sapienti, che, in realtà, nessuno lo è — un’«occupazione» che lo teneva così indaffarato da non lasciargli il tempo per qualsiasi altra faccenda pubblica o privata. E mentre si difende vigorosamente dall’accusa di corrompere i giovani, non rivendica mai l’onore di migliorarli. D’altra parte, egli pretende che l’apparizione in Atene dell’attività del pensare e dell’esaminare, da lui rappresentata, costituisse il bene più grande che mai fosse toccato in sorte alla Città. Egli si preoccupava dunque dei servizi resi dal pensare, benché anche in questo caso, come in tutti gli altri, non desse risposte nette e definitive. Si può star sicuri che un dialogo rivolto alla questione “A qual pro’ pensare?” sarebbe sfociato negli stessi punti interrogativi di tutti gli altri.

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 267

Per parte sua, ben consapevole di avere che fare nella sua impresa con ciò che è invisibile, Socrate si valeva d’una metafora per esplicare l’attività di pensare — la metafora del vento: «I venti in sé sono invisibili, tuttavia ciò che essi fanno è manifesto e in certo modo noi avvertiamo il loro avvicinarsi».

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 268

Alla fine, la conseguenza è che il pensiero possiede inevitabilmente un effetto distruttivo, tale da minare in profondità tutti i criteri fissati, i valori condivisi, le unità di misura del bene e del male, insomma tutti i costumi e le regole di condotta di cui si tratta nella morale e nell’etica. Questi pensieri congelati, sembra dire Socrate, sono così comodi che li si può usare anche dormendo, ma se il vento del pensiero che ora agiterò in te ti ha scosso dal tuo sonno, ti ha reso completamente sveglio e vivo, ti accorgerai di non avere in mano se non delle perplessità, e la cosa migliore che possiamo farne è condividerle gli uni con gli altri. Quindi la paralisi indotta dal pensare è duplice: da un lato è inerente al fermati-e-pensa, l’interruzione di tutte le altre attività (in termini psicologici, si può senza errore definire «un problema» come «una situazione che per qualche ragione blocca sensibilmente un organismo nel suo sforzo per raggiungere una meta»), ma può avere anche, quando se ne sia usciti, uno sconcertante effetto ritardato, poiché ci si sente ora insicuri di ciò che sembrava al di là d’ogni dubbio finché si era impegnati, senza riflettere, in ciò che si stava facendo.

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 269

Il due-in-uno diviene Uno non appena il mondo esterno si imponga di forza al pensatore
Certo, quando appaio e gli altri mi vedono, sono uno; altrimenti sarei irriconoscibile. E finché io sto insieme con gli altri, appena cosciente di me stesso, sono come appaio agli altri. Si chiama coscienza (letteralmente, come si è visto, «conoscere con me stesso») il fatto curioso che in un certo senso sono-per-me stesso, benché propriamente non possa dirsi che appaio a me stesso; e questo indica come il socratico «essere uno» non sia così non problematico come sembra. Io non sono solo per-gli altri, bensì anche per-me; e in quest’ultimo caso, è evidente, io non sono soltanto uno. Nella mia Unità si è insinuata una differenza.

In altre parole, siamo di fronte a un transfert, il transfert dell’esperienza dell’io che pensa alle cose stesse. Nulla, infatti, può essere se stesso e nello stesso tempo per-se stesso se non il due-in-uno che Socrate portò alla luce come l’essenza del pensiero e che Platone tradusse in linguaggio concettuale come il dialogo senza voce, tra me e me stesso. Ma, ancora una volta, non è l’attività di pensiero a costituire l’unità, a unificare il due-in-uno; al contrario, il due-in-uno diviene Uno non appena il mondo esterno si imponga di forza al pensatore e tronchi bruscamente il processo di pensiero. Allora, quando è richiamato per nome nel mondo delle apparenze, là dove è sempre Uno, è come se nel pensatore, scisso in due dal processo di pensiero, la differenza si richiudesse di colpo. In termini esistenziali, pensare costituisce un’occupazione solitaria, ma non è l’occupazione dell’isolato. La solitudine è quella situazione umana in cui tengo compagnia a me stesso. La desolazione dell’isolamento si produce quando sono solo senza essere capace di scindermi nel due-in-uno, senza essere capace di tenermi compagnia, allorché, come soleva dire Jaspers, «vengo meno a me stesso» o, per dirla in altro modo, quando sono uno e senza compagnia.

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 280

Il pensiero attrae nel suo presente, il volere muove in una regione in cui non esiste nessuna simile certezza

L’avversione dell’io che pensa nei confronti della volontà è ovviamente di genere molto diverso. Lo scontro ha luogo in questo caso tra due attività spirituali, che sembrano incapaci di coesistere. Allorché formiamo una volizione, quando cioè si concentra l’attenzione su qualche progetto futuro, ci si è ritirati dal mondo delle apparenze non meno di quando si sta seguendo una direzione di pensiero. Pensare e volere sono avversari solo nella misura in cui coinvolgono i nostri stati psichici; ambedue, è vero, rendono presente alla mente ciò che in realtà è assente, ma il pensiero attrae nel suo presente che dura ciò che è o per lo meno è stato, mentre il volere, protendendosi nel futuro, muove in una regione in cui non esiste nessuna simile certezza. Per affrontare ciò che gli viene incontro da questa regione dell’ignoto, il nostro apparato psichico — l’anima in quanto distinta dalla mente — è equipaggiato mediante la capacità dell’attesa, le cui modalità principali sono la Speranza e il timore.

Lo stato emotivo normale dell’io che vuole è l’impazienza, l’agitazione e la «cura» (Sorge), non solo perché l’anima reagisce al futuro con la speranza e il timore, ma anche perché il progetto della volontà presuppone un io-posso di cui non esiste nessuna garanzia. L’inquietudine ansiosa della volontà può essere placata solo dall’Io-posso-e-faccio, cioè dalla cessazione della propria attività e dalla liberazione della mente dalla presa di tale attività.

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 352

Il ricordo può turbare l’anima con il desiderio del passato, ma tale nostalgia, anche se contiene dolore e amarezza, non turba l’equanimità della mente, poiché concerne cose che non è in nostro potere cambiare. Al contrario, l’io che vuole, che guarda avanti e non indietro, ha a che fare con cose che sono sì in nostro potere, ma la cui realizzazione non è per nulla sicura. La tensione che ne risulta, diversamente dall’eccitazione piuttosto stimolante che accompagnarsi alle attività di risoluzione dei problemi, provoca nell’anima una sorta di inquietudine che sconfina facilmente nel tumulto, una mescolanza di timore e speranza che diviene insopportabile una volta che si scopra, secondo la formula di Agostino, che volere ed esser capaci di realizzare, velle e posse, non sono Io stesso. E tale tensione non può essere risolta se non dall’azione, cioè rinunciando completamente ad ogni attività spirituale: il semplice trapasso dal volere al pensare, non produce nulla di più di una paralisi temporanea della volontà, allo stesso modo in cui un trascorrere dal pensare al volere è sentito dall’io che pensa come una paralisi temporanea dell’attività di pensiero.

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 352

La ragione, nel dialogo senza voce del pensiero tra me e me stesso, è persuasiva, non imperativa
Aristotele dice: «Una parte dell’anima è la Ragione. Essa è il naturale sovrano e giudice delle cose che ci concernono. La natura dell’altra parte è di seguirla e di sottomettersi al suo governo». Si vedrà in seguito come impartire comandi sia tra le principali caratteristiche della Volontà. In Platone la ragione poteva assumere su di sé questa funzione in virtù dell’assunto secondo cui la ragione è rivolta alla verità, e verità è in effetti costrittiva. Ma la ragione stessa, mentre conduce alla verità, nel dialogo senza voce del pensiero tra me e me stesso, è persuasiva, non imperativa; solo coloro che non sono capaci di pensare hanno bisogno di essere costretti.

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 373

Ma l’interiorità del dialogo del pensiero, che fa della filosofia l’«occupazione solitaria» di Hegel (benché sia sempre consapevole di sé, accompagnandosi tacitamente ad ogni cosa che faccio, il cogito me cogitare di Descartes), non è rivolta tematicamente all’Io bensì, al contrario, alle esperienze e ai problemi che questo Io, un’apparenza tra le apparenze, sente bisognosi di analisi riflessiva. Questa meditazione su tutto ciò che è dato può venir disturbata dalle necessità della vita, dalla presenza degli altri, da ogni sorta di negozi urgenti. Ma nessuno dei fattori che interferiscono con l’attività della mente proviene dalla mente stessa, poiché gli interlocutori del due-in-uno sono soci ed amici, e serbare intatta questa «armonia» costituisce la prima preoccupazione dell’io che pensa.

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 379

Negli Ebrei l’immortalità era percepita come necessaria solo per il popolo e assicurata ad esso soltanto; l’individuo era pago di sopravvivere nella sua progenie
E’ l’interesse per la vita eterna, a quei tempi onnipresente nell’Impero Romano, che discrimina in modo così netto la nuova epoca dall’antichità, rivelandosi come il legame comune che univa sincretisticamente i tanti nuovi culti orientali. Non che l’interesse di Paolo per la risurrezione individuale fosse originariamente giudaico: dagli Ebrei l’immortalità era percepita come necessaria solo per il popolo e assicurata ad esso soltanto; l’individuo era pago di sopravvivere nella sua progenie, pago altresì di morire vecchio e «sazio di anni». E nel mondo antico, greco o romano, la sola immortalità che si cercasse o per cui si lottasse consisteva nel non-oblio della fama e delle grandi imprese, quindi di quelle istituzioni, la polis o la civitas, che potevano garantire la continuità del ricordo.

Cicerone aveva affermato che se pure gli uomini devono morire, le comunità [civitates] sono destinate a essere eterne e a perire solo in conseguenza delle loro colpe. Dietro le molte nuove credenze si profila nitida l’esperienza comune di un mondo in declino, forse morente. E nei suoi aspetti escatologici la «buona novella» del Cristianesimo affermava in modo perentorio: «Voi che avete creduto che gli uomini muoiono ma che il mondo è perenne, dovete soltanto rovesciare le cose, convertirvi alla fede che il mondo ha una fine ma che voi stessi avrete una vita eterna». In questo modo, è ovvio, il problema della «giustizia», cioè dell’essere degni di questa vita eterna, assume un’importanza completamente nuova, di natura personale.

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 381

Simone Weil: L'ombra e la Grazia





















Dio pena, attraverso lo spessore infinito del tempo e della specie, per raggiungere l'anima e sedurla. Se essa si lascia strappare, anche solo per un attimo, un consenso puro e intero, allora Dio la conquista. E quando sia divenuta cosa interamente sua, l'abbandona. La lascia totalmente sola. Ed essa a sua volta, ma a tentoni, deve attraversare lo spessore infinito del tempo e dello spazio alla ricerca di colui ch'essa ama. Così l'anima rifà in senso inverso il viaggio che Dio ha fatto verso di lei. E ciò è la croce.
Due forze regnano sull'universo: luce e pesantezza.
C'è una colpa sola: non aver la capacità di nutrirsi di luce. Perché, abolita questa capacità, tutte le colpe sono possibili.
Ci si stupisce che il dolore non nobiliti. Perché, quando si pensa ad un infelice, si pensa alla sua infelicità. Ma l'infelice non pensa alla sua infelicità; ha l'anima colma di qualsiasi pur minimo sollievo che gli sia concesso desiderare.
Come un gas, l'anima tende ad occupare la totalità dello spazio che le è accordato.
Dalla miseria umana a Dio. Ma non come compensazione o consolazione. Come correlazione.
«Datemi un punto di appoggio e vi solleverò il mondo.» Questo punto d'appoggio è la croce. Non ce ne possono esser altri. Bisogna che esso si trovi all'intersezione del mondo e di ciò che non è il mondo. La croce è questa intersezione.
Dobbiamo attraversare – e Dio prima di noi, per venire fino a noi, perché egli viene per primo – lo spessore infinito del tempo e dello spazio. Nei rapporti fra Dio e l'uomo, l'amore è il più grande possibile. È grande come la distanza che dev'esser superata.
Due concezioni dell'inferno. Quella comune (sofferenza senza consolazione); la mia (falsa beatitudine, credersi per errore in paradiso).
Essere nulla per essere al proprio vero posto nel tutto.
Fra gli esseri umani, si riconosce pienamente l'esistenza soltanto di coloro che amiamo.
Il male è l'illimitato, ma non è l'infinito.
Solo l'infinito limita l'illimitato.
In modo generale, non desiderare la sparizione di nessuna delle proprie miserie, bensì la grazia che le trasfiguri.
La grandezza suprema del cristianesimo viene dal fatto che esso non cerca un rimedio sovrannaturale contro la sofferenza bensì un impiego sovrannaturale della sofferenza.
L'algebra e il denaro sono essenzialmente livellatori; la prima intellettualmente, l'altro effettivamente.
L'amore, in chi è felice, è volontà di condividere la sofferenza dell'amato infelice. L'amore, in chi è infelice, è essere pieno della nuda nozione della felicità dell'amato, senza partecipare a quella gioia, e nemmeno desiderare di parteciparvi.
La nostra vita è impossibile, assurda. Ogni cosa che noi vogliamo è contraddittoria con le condizioni o con le conseguenze relative; ogni affermazione che noi pronunciamo implica l'affermazione contraria; tutti i nostri sentimenti sono confusi con i loro contrari. Siccome siamo creature siamo contraddizione; perché siamo Dio e, al tempo stesso, infinitamente altro da Dio.
L'uomo vorrebbe essere egoista e non può. È questo il carattere più impressionante della sua miseria e l'origine della sua grandezza.
Noi vorremmo che tutto quel che ha valore fosse eterno. Ora, tutto quel che ha valore è il prodotto di un incontro, dura in seguito all'incontro e finisce quando quel che s'era incontrato si separa. [...] La meditazione sul caso che ha fatto incontrare mio padre e mia madre è ancor più salutare di quella sulla morte. C'è forse una sola cosa in me che non abbia la sua origine in quell'incontro? Solo Dio. E anche la mia idea di Dio ha la sua origine in quell'incontro.
Non è forse la massima sventura, quando si lotta contro Dio, quella di non essere vinto?
Nulla al mondo può toglierci il potere di dire Io.
Se non ci fosse, a questo mondo, l'infelicità, ci potremmo credere in paradiso.
Sforzarsi di sostituire sempre più nel mondo la non-violenza efficace alla violenza.
Siamo ciò che è più remoto da Dio, al limite estremo; da cui non sia però totalmente impossibile tornare a lui. Nel nostro essere, Dio è lacerato. Siamo la crocifissione di Dio. L'amor di Dio per noi è passione. Come il bene potrebbe amare il male senza soffrire? Anche il male soffre amando il bene. L'amore reciproco di Dio e dell'uomo è sofferenza.
Solo compiendolo si ha l'esperienza del bene.
Si ha l'esperienza del male solo vietandoci di compierlo; o, se lo si è compiuto, pentendosene.
Quando si compie il male, non lo si conosce, perché il male fugge la luce.
Tutti i peccati sono tentativi per colmar dei vuoti.
Vuotarsi; ci si espone a tutta la pressione dell'universo che ci circonda.

Il piccolo libro dell'ombra di Robert Bly


In questo libro del 1988, il poeta americano Robert Bly ci parla di alcuni aspetti nascosti della nostra personalità.

Per Bly, tutti noi abbiamo una parte della nostra personalità «alla luce» e una parte «all'ombra». Cioè: tutti noi abbiamo una parte di personalità che mostriamo agli altri e che, perciò, anche noi stessi conosciamo bene. Questa è la parte «alla luce». Però, abbiamo anche una parte di personalità che non mostriamo a nessuno, perché nemmeno noi sappiamo d'averla. Questa è la parte «all'ombra». Bly la chiama «Ombra».

Ma che c'è dentro l'Ombra? Bly ci dice d'immaginare l'Ombra come un sacco invisibile sulle nostre spalle. In questo sacco mettiamo le parti di noi (cioè della nostra personalità) che non ci piacciono. Per esempio, ci mettiamo la rabbia, la paura, la gelosia. Iniziamo a riempire il sacco già da piccoli: ci mettiamo le parti di noi che non piacciono ai nostri genitori. Lo facciamo per paura di perdere il loro amore. Da adulti ci mettiamo le parti di noi che non piacciono alla società, al nostro capo, alla persona che amiamo. E anche quelle che non piacciono alla religione (il sesso, per esempio).

Il sacco ci fa star male. Perché ogni parte di noi che ci mettiamo dentro è una rinuncia a una fetta della nostra energia vitale. Perciò, più è grande il sacco, peggio stiamo.

Il sacco ci fa star male anche perché quel che ci abbiamo messo dentro non se ne sta lì buono. Cerca d'uscire fuori. E, siccome non ce la fa, ci diventa ostile, creandoci problemi psicologici. E il brutto è che ciò succede in modo non consapevole: non ce ne accorgiamo.

Il sacco ci crea la maggior parte dei danni attraverso il meccanismo della «proiezione». Che cos'è? Ogni volta che incontriamo qualcuno, abbiamo la tentazione di attribuirgli un lato di noi che abbiamo messo nel sacco. Per esempio, se odiamo qualcuno per un aspetto particolare del suo carattere, quell'aspetto è spesso uno di quelli che avevamo anche noi e che poi abbiamo messo nel sacco. Invece, se amiamo una persona per un aspetto particolare, spesso è perché anche noi avevamo quell'aspetto e poi l'abbiamo messo nel sacco.

«Proiettare» è pericoloso, per due motivi. Il primo è che così odiamo o amiamo una persona per un solo aspetto del suo carattere. E gli altri? Il secondo è che è possibile proiettare anche i lati della nostra personalità che non sono nel sacco. Ciò significa che l'energia vitale che non abbiamo perso nel sacco la possiamo perdere proiettandola. Faccio un esempio. Se io sono coraggioso, ma proietto il coraggio su un'altra persona (cioè penso che l'altra persona rappresenti il coraggio perfetto), finisco per credere che sia solo lei ad averlo. Chi fa così perde tanta energia vitale.

Per recuperare la nostra energia vitale abbiamo due modi. Il primo è scoprire che c'è dentro il nostro sacco. Il secondo è riprenderci le nostre proiezioni. Ma come si fa? Bly ci dà qualche consiglio. Per esempio, ogni volta che odiamo qualcuno senza motivo, lì c'è la nostra Ombra. Poi, dobbiamo cercare di sviluppare i sensi, per aumentare la nostra sensibilità. Lo possiamo fare suonando uno strumento musicale, facendo un viaggio lontano, stando un po' da soli ad ascoltare noi stessi, oppure tenendo un diario.


Da “Onorare l’Ombra”, un'intervista con William Booth
Bly: …Jung dice che una persona che ha represso efficacemente la propria Ombra ha difficoltà a comunicare agli altri i propri sentimenti… Nella nostra cultura, per effetto delle teorie permissive sull’educazione dei bambini, gli insegnanti di scuola materna, o perlomeno alcuni di loro, pensano ancora che sia bene che il bambino esprima la rabbia, che ‘butti fuori l’aggressività’, come spesso si dice. Da noi, alcuni bambini vengono incoraggiati a esprimere la rabbia. Perciò quel lato della loro Ombra diventa visibile, appare alla luce del giorno.

Booth: Questo sembrerebbe un antidoto al problema di cacciare le cose nel sacco.

Bly: L’intenzione è quella, ma non funziona molto bene. E credo che neppure l’espressione del materiale sessuale nei giovani funzioni molto bene. Il problema è questo: quando nella scuola materna un bambino esprime rabbia e violenza e l’agisce, è come se l’impulso elettrico creasse nel cervello un percorso lungo il quale la rabbia scorrerà più facilmente la prossima volta. Ma un’esplosione di rabbia è spesso vissuta dal’Io come una sconfitta. Il compito dell’Io è quello di fare di noi degli esseri sociali. Se la rabbia del bambino innesca quella di un adulto, l’Io del bambino può venire danneggiato da quello che succede. E quando il bambino che ha ricevuto un’educazione permissiva avrà quaranta o cinquant’anni, esprimerà ancora la rabbia come faceva alla scuola materna, perché l’elettricità continua a percorrere lo stesso vecchio solco nel cervello. La persona non viene rafforzata, bensì umiliata da queste esplosioni di rabbia.

Booth: Perciò il bambino deve avere libertà di espressione, ma anche rafforzare l’Io.

Bly: Beh, è un po’ come se l’Io e l’Ombra giocassero fra loro una partita. Quando l’educatore permissivo interviene e dice al bambino di esprimere la rabbia è come dare all’Ombra quindici palle e alla struttura nessuna. La teoria permissiva sottovaluta la serietà di quella partita.

Nel suo libro The End of Sex (La fine del sesso), George Leonard dice di essere stato negli anni Sessanta un entusiastico sostenitore della completa espressione della sessualità. Oggi sente che quell’espressione alla fine porta a un’umiliazione dell’Io e che di conseguenza la psiche perde in parte il suo interesse per la sessualità, perde parte del suo eros. La nostra cultura ha in sé una nostalgia dei modi di espressione primitivi come antidoto alla repressione.

I gruppi giovanili nazisti proponevano una sorta di ritorno alla natura, di primitivismo. Il nazismo, naturalmente, conteneva una follia di stato, mentre non tutti i movimenti per il ritorno alla natura sono folli; la maggior parte di essi è essenzialmente sana. E tuttavia attraverso l’esperienza di Kurtz in Cuore di tenebra possiamo capire il pericolo che la nostalgia occidentale del primitivo rappresenta per la psiche. Accerchiato dagli impulsi primitivi, l’Io perde la capacità di difendere il proprio terreno e scompare nei movimenti di massa, si scioglie come lo zucchero nell’acqua.

(...) Possiamo distinguere le due figure (il selvaggio-naturale e il selvaggio-brutale, NdR) osservando vari dettagli. Il selvaggio-naturale è spontaneo ed è in contatto sia con il proprio lato femminile sia con la propria sessualità maschile positiva. Nessuna di queste qualità implica la violenza o il dominio sugli altri. Per me l’uomo in fondo allo stagno (Giovanni di ferro, dalla fiaba dei fratelli Grimm, NdR) assomiglia più a un maestro Zen che a un primitivo, il quale, nell’immagine che ne abbiamo noi, grugnisce soltanto.

L’immagine del selvaggio-naturale corrisponde a uno stato dell’anima che consente al materiale ombra di ritornare pian piano, in modo da non danneggiare l’Io. Sembra che il racconto dei Grimm voglia ricordarci gli antichi riti d’iniziazione nell’Europa settentrionale. I maschi anziani insegnavano ai maschi più giovani ad affrontare il materiale Ombra in modo tale che non schiacciasse l’Io o la personalità. Insegnavano a fare di quell’incontro più un gioco che una lotta.

Quando l’Ombra viene assorbita, l’essere umano perde gran parte della sua oscurità e diviene luminoso, leggero e giocoso in modo nuovo. L’Ombra non assorbita crea un alone scuro intorno alla persona…

Booth: Sono confuso dal modo in cui parli di luminosità in questo contesto, dicendo che una persona che assorbe l’Ombra non diventa scura, ma luminosa, leggera e giocosa. In passato, a volte hai usato la parola ‘luce’ in senso negativo. Hai anche detto che Bertrand Russell aveva troppa luce nella sua personalità e che volevi un leader politico che fosse un corvo e non una colomba o una rondine.

Bly: D’accordo, allora ritiro la parola ‘luminoso’. Marie-Louise von Franz ha detto da qualche parte che una persona che ha lavorato con l’Ombra o che ha integrato l’Ombra dà la sensazione di essere condensata. Gli altri le riconoscono facilmente una certa autorità nelle questioni morali. Ha detto che se un insegnante ha lavorato con la propria Ombra, gli studenti, per quanto giovani possano essere, lo sentono. Per lui mantenere la disciplina in aula è facile, perché gli studenti percepiscono che ha con sé il suo corvo. Altri insegnanti che non hanno ancora lavorato con la propria Ombra possono parlare di disciplina tutto il giorno senza però ottenerla. Mi piace l’idea che il lavoro sull’Ombra dia luogo a una condensazione, a un ispessimento o addensamento della psiche che è immediatamente evidente e genera un naturale senso di autorità. Senza che l’autorità venga richiesta. (pagg. 73-78)

…la persona che ha mangiato la propria Ombra diffonde calma intorno a sé ed esprime più dolore che rabbia. Se è vero, come gli antichi sostenevano, che l’oscurità contiene intelligenza, nutrimento e perfino informazione, allora la persona che si è nutrita della propria Ombra possiede più energia, oltre che più intelligenza. Perciò possiamo domandarci: “Come si fa a mangiare l’Ombra o a riappropriarsi di una proiezione, in pratica?”

Suggerimenti per la vita quotidiana potrebbero essere: acuire i sensi dell’odorato, del gusto, del tatto e dell’udito, creare dei vuoti nelle proprie abitudini, visitare tribù primitive, fare musica, modellare nella creta figure spaventose, suonare uno strumento a percussione, stare da soli per un mese. Una donna può provare a fare il patriarca nei suoi momenti liberi e vedere se le piace; ma deve farlo giocosamente.

Un uomo può provare a fare la strega nei suoi momenti liberi e vedere se gli piace, ma deve farlo giocosamente. Può imparare a fare la risata della strega, per esempio, e raccontare favole. La donna può imparare a fare la risata del gigante e raccontare favole. (da pagg. 64-65)

Robert Bly, tratto da “Il piccolo libro dell’ombra” (Edizioni Red).