Elea-Velia

Elea-Velia

domenica 28 febbraio 2010

William Blake


“Voi dite che ho bisogno di qualcuno
che mi spieghi le mie idee.
Ma dovreste sapere che Ciò che è Grande
è necessariamente oscuro per gli uomini Deboli.
Ciò che può essere reso Chiaro all’Idiota
non merita la mia attenzione”.

William Blake
(Da una lettera al reverendo Dr. Trusler)






















La Voce del Diavolo

Tutte le Bibbie, codici sacri, sono state causa dei seguenti Errori:

1. Che nell’Uomo ci sono due principi reali di esistenza, cioè un Corpo e un’Anima.

2. Che l’Energia chiamata Male, procede solo dal Corpo; che la Ragione, chiamata Bene, procede solo dall’Anima.

3. Che Dio in Eterno torturerà l’Uomo avendo egli seguito le proprie Energie.

Ma i seguenti Contrari a tali Errori sono Verità:

1. Nell’Uomo non c’è un Corpo distinto dall’Anima; il cosiddetto Corpo è una parte dell’Anima che i cinque Sensi, maggiori antenne dell’Anima in questo evo, discernono.

2. Solo l’Energia è vita, e procede dal Corpo; la Ragione non è che il confine o il cerchio esterno dell’Energia.

3. L’Energia è l’Eterno Piacere.

Reprimono il desiderio solo quelli che lo hanno tanto debole da poterlo reprimere; l’elemento repressivo o ragione ne usurpa allora il posto e fa da guida a chi non sa volere.

Cosi frenato, il desiderio si fa gradualmente passivo fino a non più essere che ombra di sé.

La storia di ciò si trova scritta nel Paradiso Perduto, dove il Tiranno, ossia la Ragione, si chiama Messia. E l’Arcangelo delle origini, o detentore del comando dell’esercito celeste, è chiamato Demonio o Satana, e Peccato e Morte sono chiamati i suoi figli. Ma nel Libro di Giobbe, il Messia di Milton si chiama Satana.

Poiché le due parti hanno registrato la stessa storia.

Parve infatti alla Ragione che il Desiderio fosse stato bandito, ma è versione del Demonio che il Messia cadde, e formò poi un cielo con quanto gli riuscì di carpire all’Abisso.

E’ attestato anche nel Vangelo quando egli prega il Padre d’inviargli il consolatore cioè il Desiderio, affinché potesse la Ragione avere Idee su cui costruire; il Gehovah della Bibbia non essendo altri che colui che dimora nelle fiamme del fuoco.

Dopo la sua morte, sappiate, Cristo diventò Gehovah.

Ma in Milton, il Padre è Destino, il Figlio, un Calcolo dei cinque sensi, lo Spirito Santo, Vuoto!. Nota. Milton era impacciato scrivendo di Dio e degli Angeli, e a suo agio scrivendo dei Demòni e dell’Inferno, poiché egli era un vero Poeta, e dalla parte del Demonio senza saperlo.

Proverbi Infernali

Nel tempo della semina impara, in quello del raccolto insegna, d’inverno spassatela.

Guida il carro e l’aratro sopra l’ossa dei morti.

La strada dell’eccesso porta al palazzo della saggezza.

La Prudenza è una ricca e brutta vecchia zitella corteggiata dall’Impotenza

Chi desidera ma non agisce, alleva pestilenza.

Il verme tagliato perdona l’aratro.

Se gli piace l’acqua, buttatelo nel fiume.

Lo stolto non vede un albero allo stesso modo del saggio.

Chi ha un volto senza un raggio di luce, non diventerà mai stella.

L’Eternità è innamorata delle opere del tempo.

L’ape affaccendata non ha tempo per dolersi.

Le ore della pazzia sono misurate dall’orologio;

ma quelle della saggezza, nessun orologio può misurarle.

Per l’unico cibo sano non valgono reti né trappole.

Conti, peso e misura, lasciali all’anno di carestia.

Nessun uccello sale troppo in alto, se sale con le sue ali.

Un cadavere non si vendica se l’insulti.

È il gesto più sublime anteporre un altro a sé.

Se il matto persistesse nella sua follia, andrebbe incontro alla saggezza.

Pazzia è il travestimento della malizia.

Vergogna è la maschera dell’Orgoglio.

Con le pietre della Legge hanno alzato Prigioni; coi mattoni della Religione, Bordelli.

La superbia del pavone, è la gloria di Dio.

La lubricìtà del capro, è la munificenza di Dio.

La collera del leone, è la sapienza di Dio.

La nudità della donna, è il lavoro di Dio.

L’Eccesso di dolore ride. L’Eccesso di gioia piange.

Il ruggire dei leoni, l’ululare dei lupi, l’ergersi del mare furente e il gladio distruttore, sono particelle dell’eternità troppo grandi per l’occhio dell’uomo

La volpe biasima la trappola, non se stessa.

Le Gioie fecondano: i Dolori partoriscono.

L’uomo indossi le spoglie del leone, la donna il vello della pecora.

All’uccello un nido, al ragno una tela, all’uomo amicizia.

Il pazzo egoista e sorridente e il pazzo tetro e scontroso saranno entrambi presi per saggi, affinché possano essere una frusta.

Ciò che oggi può dimostrarsi, una volta fu solo immaginato.

Topo, gatto, volpe, coniglio mirano alle radici; il leone, la tigre, il cavallo, l’elefante si volgono verso i frutti.

La cisterna trattiene, la fonte dilaga.

Un pensiero colma l’immensità.

Sii sempre pronto a dire ciò che pensi, e il vile ti scanserà.

Qualsiasi cosa che si possa credere, è immagine di verità.

L’aquila non sprecò mai tanto il suo tempo come quando si mise alla scuola del corvo.

La volpe provvede a sé, ma al leone provvede Iddio.

Di mattina pensa. A mezzogiorno agisci. A sera mangia. Di Notte dormi.

Se uno ti ha permesso di fargliela, è segno che ti conosce.

Come l’aratro va dietro alle parole, cosi Iddio esaudisce le preghiere.

Le tigri dell’ira sono più sagge dei cavalli dell’educazione.

Aspettati veleno dall’acqua ferma.

Non puoi mai sapere ciò che basta, a meno che tu non abbia conosciuto prima l’eccesso.

Da’ ascolto ai rimproveri del matto: è privilegio da re.

Gli occhi di fuoco, le narici d’aria, la bocca d’acqua, la barba di terra.

Chi manca di coraggio è esuberante d’astuzia.

Il melo non chiede per crescere consiglio al faggio, né al cavallo il leone per afferrare la preda.

Chi è grato nel ricevere si prepara un’abbondante messe.

Se non ci fossero stati gli sciocchi, dovremmo esserio noi.

L‘anima della dolce gioia, non si potrà mai insozzare.

Quando vedi un’Aquila, vedi una particola di Genio: alza la testa!

me, per deporvi le uova, il bruco elegge le foglie più belle, il prete depone cosi sulle nostre migliori gioie la sua maledizione.

La creazione d’un piccolo fiore è lavoro di ere.

Condannare accresce il vigore. Benedire, lo attenua.

Il miglior vino è il più vecchio, l’acqua migliore è la più nuova.

Pregare non ara! Adulare non miete!

La gioia non ride! I dispiaceri non piangono!

La testa, il Sublime; il cuore, Pathos; i genitali, Bellezza; mani e piedi, la Proporzione.

Come per l’uccello, l’aria, per il pesce, il mare, così sia il disprezzo per lo spregevole.

Il corvo vorrebbe che ogni cosa fosse nera, il gufo, che tutto fosse bianco.

Esuberanza è Bellezza.

Se il leone si lasciasse consigliare dalla volpe, si farebbe furbo.

Le migliorie raddrizzano le strade; ma le vie tortuose e prive di migliorie sono quelle del Genio.

Sarebbe meglio per te uccidere un bimbo nella culla che cullare desideri inattuati.

Dove manca l’uomo, la natura è sterile.

La verità detta in modo comprensibile non sarà mai non creduta.

Memorabile Apparizione

[…] L’antica tradizione che il mondo sarà consumato dal fuoco alla fine di seimila anni risponde a verità, secondo quanto ho udito dall’Inferno.

Non appena al cherubino con la spada fiammante sarà ordinato di smontare la guardia all’albero della vita, subito l’intero creato sarà consumato e apparirà infinito e sacro, mentre ora non appare che finito e corrotto.

Avverrà ciò per via d’un progredire del godimento sensuale.

Ma prima di tutto, la nozione che l’uomo ha un corpo distinto dall’anima dovrà essere espunta; e sarò io a farlo, stampando col procedimento infernale, con corrosivi, che nell’Inferno sono salutari e medicinali, dissolvendo le superfici apparenti, e rivelando l’infinito che nascondevano.

Se si pulissero le porte della percezione, ogni cosa apparirebbe all’uomo come essa veramente è, infinita.

Poiché l’uomo s’è da se stesso rinchiuso, fino a non vedere più le cose che attraverso alle strette fenditure della sua caverna. [….]

Memorabile Apparizione

[…]L’Angelo mio amico s’arrampicò dal suo posto su nel mulino; io rimasi solo; ed ecco quell’apparenza non c’era più, e mi ritrovai seduto sull’amena sponda d’un fiume, al chiaro di luna, ascoltando un musico che cantava accompagnandosi con l’arpa su questo tema: «L’uomo che non cambia mai parere è come l’acqua stagnante, e alleva i rettili della mente ».

L'Opposizione è la vera Amicizia.

Reprimono il desiderio solo quelli che lo hanno tanto debole da poterlo reprimere.

Senza Contrari non c'è progresso.

Una Legge per il Leone e il Bue è Oppressione.

Gilles Deleuze: COSA PUÒ UN CORPO? Lezioni su Spinoza


Gilles Deleuze, Cosa può un corpo? Lezioni su Spinoza, a cura di Aldo Pardi, Ombre Corte, Verona, 2007, pp. 202, euro 18.50

Ci sono molte ragioni per regalarsi la lettura delle lezioni su Spinoza di Gilles Deleuze, sino a ieri disponibili solo on line e adesso tradotte e curate col titolo Cosa può un corpo? da Aldo Pardi, autore di un densissimo saggio prefatorio, all’interno di una la felice congiuntura editoriale: sono da poco disponibili il Meridiano delle Opere di Baruch Spinoza, prima traduzione integrale dei testi spinoziani (qui l'ottima recensione di Toni Negri), e il primo dei due volumi che raccolgono tutti gli scritti brevi di Deleuze: L’isola deserta e altri scritti – 1953-1974. Tre testi che, letti in contaminazione, evidenziano come nel pensiero di Gilles Deleuze si esprima oggi la forma di spinozismo più adeguata al tempo presente.
La prima, fondamentale ragione è l’aspetto terapeutico che oggi riveste l’opera di Spinoza: in un’epoca caratterizzata dal governo politico delle passioni tristi, la sua lettura è liberatoria per la sua capacità di andare alla radice delle servitù che imprigionano le menti e i corpi. Ma attenzione: non si tratta di una fuga nell’intellettualismo, né di una riabilitazione dell’aspetto consolatorio della filosofia che lo stesso filosofo olandese disdegnava. La conoscenza dei rapporti tra mente e corpo è, per Spinoza come per Deleuze, sempre pratica: ciò che è in gioco è sempre un concreto incrociarsi e scontrarsi di rapporti di potere, affetti, costruzioni sociali. Lo stesso corpo individuale è una costruzione sociale, un progetto politico: la sua espressione (lo mette bene in luce Pardi nella Prefazione) e la sua interpretazioni sono impensabili senza la comprensione adeguata delle stabilizzazioni imposte dai dispositivi di assoggettamento e dalle forme di riproduzione del potere. La prassi spinoziana (degli spinozisti come del cittadino Baruch Spinoza) era (ed è) affermazione, nel pensiero come nella vita, di un’altra società, di uno scarto rispetto al grado di esistenza e di libertà concesso dal potere: «una società dove il diritto si potesse compiutamente esprimere come potenza collettiva» (Pardi, p. 31).
Ma la potenza del pensiero spinoziano comporta un rischio: che lo spinozismo, magari proprio nella sua versione deleuziana, scada a riproposizione di affermazioni filosofiche con valore di slogan a fronte della crisi dei movimenti e dell’attuale inadeguatezza delle loro prassi. Inadeguatezza che ha la sua radice nell’incapacità di uscire dall’autoreferenzialità, nella chiusura nei localismi e nei soggettivismi: nell’inadeguata capacità di raccordare le lotte e i movimenti locali, i loro spazi e luoghi. Moltitudine, immanenza, molteplicità rischiano così di diventare verbosi artifici buoni a coprire i buchi, le lacune, le fratture – e talvolta effettivamente si assiste al compiaciuto bearsi di simili flati vocis. Contro questa perversione dello spinozismo vale come antidoto quel Deleuze che non ha mai smesso, per tutta la sua vita, di affermare che non basta evocare l’immanenza: bisogna costruirla. Così come non basta invocare la razionalità o la socialità dell’essere umano, socialità e razionalità sono costruzioni. «Non si nasce esseri sociali. Nessuno nasce ‘socievole’» (p. 82), né si nasce razionali, lo si diventa: «Spinoza non pensa assolutamente come un razionalista – per i razionalisti esistono la ragione e le idee, e se ne avete una, le avete tutte: siete razionali. Spinoza pensa invece che si diviene razionali, o saggi, cosa che cambia del tutto il senso del concetto di ragione» (p. 59). Divenire sociali e razionali è questione di incontri, e gli incontri sono questione di percezioni, adeguate o meno: per Spinoza la percezione è un problema politico, è forse IL problema politico, dal quale tutto scaturisce. Ogni incontro è infatti una composizione che esprime il massimo grado di potenza possibile. Una cattiva, cioè inadeguata, percezione dei corpi, della società, dell’altro condurrà ad una cattiva composizione, esattamente come il veleno è una cattiva composizione per il mio corpo: stiamo parlando ancora di metafisica, stiamo facendo della fenomenologia, o stiamo parlando di analisi sociale, dunque di politica? È del tutto evidente che questa distinzione non ha senso: il giudizio politico è espressione di una prassi, la quale esprime il massimo livello di composizione dei rapporti di cui posso essere capace a partire dall’adeguatezza o meno della mia comprensione degli elementi costituenti. È per questo che l’etica di Spinoza non è un’etica del dovere, ma un’etica della potenza: «Spinoza non fa mai della morale, per la semplice ragione che no si chiede mai cosa si “deve” fare. Piuttosto, si interroga su cosa si è in grado di fare, sulla potenza» (p. 55). E sulla potenza Deleuze ci dà una lezione, la settima, che da sola vale l’intero libro, dove l’etica viene rifondata secondo potenza all’interno di un discorso sul limite percettivo e l’uso del colore nella pittura bizantina che sfocerà nei colori di El Greco, pittore molto amato da Deleuze.
Soprattutto - ecco un’altra ragione per leggere questo libro – non ci si chiede mai “cosa posso sperare?”: la speranza, come l’invidia, la paura, l’ambizione, è una passione triste. Non per caso non si incontra il tema della speranza in queste lezioni: la speranza è, per Spinoza, una fluttuazione dell’animo speculare alla paura, della quale viene creduta essere il rimedio. Dall’Etica al Trattato politico, Spinoza non ha incertezze nel collegare speranza e paura all’immagine, auspicata o temuta, di una cosa futura del cui accadere dubitiamo. Chi vive nella speranza o nel timore rinuncia a vivere la propria vita in favore o per timore di un’altra vita che non è, e che forse potrà essere. Con le parole di Nietzsche: non è un rimedio alla sofferenza, ma un prolungamento indefinito della sofferenza.
Vincolare un altro alla promessa di un beneficio futuro è un modo per assoggettarne tanto il corpo quanto la mente, scrive Spinoza nel Trattato (II.10): costringerne l’anima a cercare di salvarsi piuttosto che insegnarle a vivere la vita. Il governo politico della tristezza non è altro che questo: vincolare la privazione di vita a una speranza, e questa a una «grande speranza che deve superare tutto il resto». Che tale speranza sia un Dio «che può proporci e donarci ciò che da soli non possiamo raggiungere» (Enciclica Spe Salvi), o che siano i dispositivi che ci vincolano alla rassegnata accettazione della nostra incapacità a costituirci liberamente al di fuori dei processi di assoggettamento, promettendoci la sicurezza in cambio dell’autodeterminazione: il risultato resta interno alla produzione sociale della paura, del timore, del bisogno di rassicurazione. Essere spinoziani è una questione di stile: significa rifiutare questi mediocri pastori di anime e di corpi, queste menti frustrate dalle proprie catene che proiettano sul corpo sociale le proprie servitù. Significa scommettere sulle pratiche costituenti di liberazione piuttosto che sui predicatori di tristezza: «Eppure ci sono persone che la coltivano con assiduità... L’Etica è una denuncia radicale di tale atteggiamento – vedete quanto Spinoza sia distante dal giustificare anche minimamente la brama di potere: solo le persone frustrate pretendono il potere, per rivalsa. Per questo sono pericolose. Solo i frustrati costituiscono sistemi di potere basati sulla tristezza. Hanno bisogno della tristezza degli altri. Possono regnare solo facendoli schiavi, perché la schiavitù è precisamente il regime in cui la potenza diminuisce. Gli uomini di potere instaureranno sempre regimi basati sulla tristezza. Per capirci: “Fate penitenza!”, oppure: “Odiate questo o quello!”. Non avete nessuno da odiare? Odiate voi stessi! La cultura della tristezza, la tristezza come valore, tutte le frasi che dicono: “Per crescere bisogna soffrire”, tutte queste cose per Spinoza sono abominevoli. Scrive un’etica proprio per dire: “Non è vero! Proprio per niente!” (p. 115).

di Girolamo De Michele

sabato 27 febbraio 2010

Politica delle bellezza


Ri-scrivendo James Hillman

Politica della bellezza raccoglie una serie di saggi, pubblicati separatamente da James Hillman tra il 1994 e il 1999, curati e tradotti da Francesco e Paola Donfrancesco. Hillman ci dice sostanzialmente questo: i fattori rimossi più significativi delle nostra psicologia contemporanea sono la bellezza e la politica.
Non avendo senso riportare il succo dei diversi saggi inclusi nel libro, abbiamo provato a raccontarli con altre parole.

RICONOSCENZA DELLA BELLEZZA: L’ILIADE
A prima vista l'essere riconoscenti verso una persona sembra sia solo relativo ad una ammissione di credito verso la persona "riconosciuta". Se diciamo a qualcuno: "Grazie di esistere", la frase si più tramutare in forma più dettagliata con qualcosa tipo: "Riconosco in te qualcosa di importante che mi fa essere grato nei tuoi confronti", da cui nasce quel ringraziare che riconosce.
Il termina va in realtà scomposto nel suo verbo d'origine ri-conoscere.
La riconoscenza ha a che fare con un forma di nuovo conoscere: "Ti conoscevo, ma adesso ti ri-conosco", e concerne un ambito di immagini che si vanno identificando sempre più chiaramente.
Si riconoscono dei segni, dei simboli, delle immagini "difficili", che prima si conoscevano ma con una forma non ben definita, imprecisa, superficiale o rimossa.
Il verbo 'riconoscere' possiede però una ambivalenza: si riconoscono i debiti, ma si riconoscono anche le colpe.
"Adesso che ti ho riconosciuta so di avere un debito con te, lo riconosco", quando è la bellezza di una persona ad essere riconosciuta, il tipo di debito pare non saldabile. Se chi riconosce non è un narciso perso in se stesso, quel debito può solo far scaturire riconoscenza. Un specie di grazie ostinato e continuato, quasi perenne se il debito è percepito come più "grande di me".
Anche per le colpe, "Adesso che ho riconosciuto la mia colpa so di avere un credito di scuse con te, lo riconosco", in questo caso è il credito di scuse che tende a farsi ostinato e continuato, quasi perenne se la colpa è percepita come più "grande di me".
Le persone quando si riconoscono si ringraziano o si scusano, a seconda dei casi, con delle modalità cui oggi è difficile dare, nei contesti del bello e dell'amore, forma o verbo. Dire "grazie" o "scusa", ci appare un formalismo vuoto. Ma in verità ci pare necessario ricondurli alla base di una conoscenza avanzata che riconosce qualcosa all'altro. Una conoscenza consapevole del bene ricevuto dall'altro o del male arrecato all'altro.
Riconoscere possiede dunque due derivazioni dal suo stato di azione attiva (il fatto di riconoscere): una forma negativa attiva (chiedo scusa) ed una positiva passiva (ti ringrazio), che talvolta si utilizzano in un contesto profondo che sa di 'colpa grave' o di 'grazia ricevuta'.
L'accezione negativa della riconoscenza, ha un sapore sicuramente cristiano: il moralista cristiano ci induce a "riconoscere le nostre colpe". In ambito cattolico diventa difficile fare scuse perché ci si è già confessati: espiata la colpa nel confessionale perché assumersi la responsabilità di scusarsi "in eterno" con la propria vittima? In questo senso il protestante è più serio, salvo che poi abbia finito per non sentirle proprio le colpe: l'uomo di cultura protestante semplicemente non le riconosce più come tali e finisce dallo psicanalista.
Ma non vorrei dilungarmi sul tema della riconoscenza della colpa. Mi interessa, invece, soffermarmi su di un altro concetto: quello di "grazia ricevuta" in relazione al riconoscimento della bellezza di una persona che induce a ringraziarla.
Quando diciamo a un'altro "Grazie di esistere", qualcuno che osservi da fuori può dire che abbiamo ricevuto una grazia, "siamo stati graziato", abbiamo avuto qualcosa come "grazia ricevuta".
L'idea di "grazia ricevuta" è utilizzata, in ambito cristiano, per segnalare una illuminazione divina. Quando un uomo è toccato da una nuova conoscenza chiamata fede in Dio, si dice che abbia ricevuto la grazia di Dio. Il cristianesimo fa suo questo modo di conoscere che passa attraverso la riconoscenza di "qualcosa di grande" che obbliga a pregare. Un pregare che è un ringraziare 'perenne' Dio del dono della fede.
E' però evidente che l'unica cosa che ai cristiani è permesso di riconoscere è la grandezza di Dio. Alcuni protestanti sono stati molto accorti nel segnalare un passo del Vangelo che dice "Dio è amore". In questo modo potevano dire agli uomini che riconoscevano bellezza e amore, che quanto riconosciuto era in verità solo Dio, e non certo una divinità dell'Amore pagano, quale Afrodite.
Se in ambito religioso, il "grazie perenne" che si rivolge a Dio diventa preghiera, cosa capita in ambito 'pagano', se ciò che riconosciamo è una grande bellezza terrestre e non celestiale? Dove porta quel bello che non è trascendentale, posto fuori dal mondo, ma immanente, cioè di questo mondo? A cosa conduce quella riconoscenza del bello di una persona?
Conduce alla seduzione, cioè a quell'iter che realizza l'amore.
Riconoscere la bellezza, equivale a riconoscere di essere stati sedotti. La riconoscenza, quel ringraziare che riconosce, non si può che fare preghiera o poesia se posto a livello di agape, ma si dovrà attivare a sua volta in seduzione nei confronti della persona riconosciuta se rivolto all'eros.
Oggi, occorre prendere atto che il verbo riconoscere è declinato in relazione a cantanti, uomini di spettacolo, attori e sportivi se non modelli di macchine e di moda. Riconosciamo gli attori dei film, la musica di un band, il viso di un calciatore, la marca di una griffe o il modello di casa automobilistica. Si viene socialmente apprezzati dagli altri se dimostriamo queste capacità di riconoscimento; si viene, viceversa, derisi se uno dice: "Quella ragazza è veramente bella!". Oggi, nell'interloquire sulla bellezza di una ragazza o ragazzo accettiamo solo termini come 'carina', 'belloccia', se non più espliciti riferimenti al sesso, etc…, o al maschile. Lo stesso termine sedurre è poco usato in quanto sostituito da termini come 'corteggiare' o 'filare', 'battagliare'. Il senso di questi termini deriva dal fatto che la fase di seduzione è spesso ridotta al minimo nei modi e nei tempi e sono sintomo dell'eclissi del valore della bellezza umana.
Del resto quello che oggi seduce veramente, cui siamo maggiormente disposti a lottare e pazientare, non ha molto a che fare con il riconoscimento della bellezza e dell'amore. Si è sedotti dalla sicurezza dei soldi che ci permetteranno di fare shopping. Si è sedotti dal pensare di poter riempire le borse da shopping di tutto quanto siamo indotti a pensare come bello, cioè necessario a gratificarci.
La Elena omerica, e il suo archetipo Afrodite, sono veramente in esilio. Bello è ciò che piace al mercato, anzi quello che l'industria vende alla massa dei consumatori con sopra l'etichetta di bello. Il bello è quello che vende, non quello che fa conoscere l'amore. Il bello non spinge più a conoscere per sedurre, ma lo si acquista per gratificarci. E' una forma di narcisismo che ci fa dire: "Come sono contento, anch'io sono arrivato a potermi comprare il prodotto x!"
Di fronte alla bellezza di una persona siamo disposti a 'battagliare' per un po', ma molto meno a condurre una guerra di Troia. L'Iliade nostra sembra un'altra. E' quella guerra per acquistare una solida posizione del mercato dei consumatori dove tutte le nostre energie e forze sono indirizzate, anche perchè la bellezza non si conquista, appunto, ma sempre più si acquista.
Se solo diciamo, invece che "Dio è amore", "amore è riconoscenza", possiamo concludere questa parte del discorso dicendo che l'atto che suscita l'amore è l'atto di riconoscere la bellezza. E' quell'atto che ci spinge, con le modalità coatte erotico/seducenti, alla scoperta profonda dell'altro. La lotta per amare nella riconoscenza ci libera dai nostri angusti limiti personali (quel sentirsi più grandi dei nostri confini quando riconosciamo la grandezza degli altri) e nella seduzione ci induce all'agire attivamente verso l'amato/a (si tratta di farsi ri-conoscere sempre di più).
Se vogliamo amore dobbiamo spingerci a conoscere gli altri riconoscendone, in primis, la bellezza e quindi prendendosi tutto il tempo che una guerra richiede. Al contrario, non riconoscendo la bellezza o considerandola una breve battaglia, si sceglie di vivere in quella specie di ignoranza e ipocrita consapevolezza che si chiama conformismo, o "ottundimento psichico", come lo chiama Hillman citando Lifton, che ci avvia a renderci un esercito di consumatori che lottano nei supermercati alla ricerca di 'prodotti di bellezza'.

VIAGGI VICINI E LONTANI: L’ODISSEA
Perché viaggiamo? Ci piace viaggiare, sognare un posto, desiderarlo e poi andarci. Ma i viaggi oggi non sono odissee, se non per i disguidi e ritardi degli aerei. Non impariamo più nulla dal posto dove andiamo: ci lascerà impressioni, suoni, colori, ma torniamo senza saper nulla delle gente, dei luoghi, degli animali e delle piante che abbiamo visto. Sì, ci siamo stati, l'abbiamo viste quelle terre e quelle persone lontane, ma dimentichiamo che nel nostro sogno in quei luoghi cercavamo la vita, un maggiore senso della vita: una nuova casa. Ci accontentiamo invece delle cartoline musicali che serbiamo in quell'album di ricordi che è la nostra memoria. Del resto vorremmo viaggiare anche per conoscere, ma ci portiamo dietro tutto quanto già conosciamo: dal dentifricio all'amico vicino, dalla maglietta al libro dell'autore preferito. A quanto di già noto ci portiamo dietro, si aggiunge poi quel quanto di già noto troviamo colà: dalla Coca-cola e alla Tv, dalla cucina internazionale al capo "made in Italy".
I tempi contingentati delle ferie, costringono poi ad utilizzare il mezzo più stupido: l'aereo. Icaro non ha proprio insegnato niente. Il punto non è la superbia dell'atto di voler volare, ma la stupidità di voler percorrere ampie distanze con la testa fra le nuvole, alienati da quello che è il percorso del viaggio. Il carattere avventuro del viaggio risiede proprio nelle difficoltà del tragitto; mentre la sua impressione maggiore sorge dall'osservare quanto sta nel mezzo tra la casa reale e quella dei sogni.
Così, dopo un viaggio, la vita quotidiana resta tale e quella sognata un desiderio represso. Oppure si dirà che era tutta una finta. La nostra vita ci piace così com'è. Il viaggio è stato solo uno sfizio, un tentativo fasullo e scherzoso di accedere ad un'altra vita in un altro luogo.
Ecco il turismo. Il viaggiare fine a se stesso, prodotto di consumo atto a soddisfare le voglie esotiche dei nostri sogni.
Così torniamo nelle nostre case e non possiamo fare altro che, depliant turistici alla mano, solleticare le nostre sterili fantasie geografiche, alla ricerca di una nuova meta da desiderare per l'anno successivo.
Parlo del viaggio, perché il sogno/desiderio di raggiungere un estremo, percepito più o meno lontano da quella casa che è la nostra vita quotidiana, è in verità un altro stimolo verso il bello, o l'amore come compimento di un percorso. Quel bello che si trova frustrato o assente quanto ridotto a turismo. Quando vogliamo abbandonare lo 'stranoto', il conosciuto quotidiano che ci annoia a morte, allora sogniamo posti estremi, più o meno lontani. Lo facciamo perché in quel luogo vi riconosciamo qualcosa di essenziale per noi, per il senso della nostra vita: la sua bellezza.
Un tipo di bellezza cui si aggiungere l'aggettivo "esotica" o "antica",quando è percepita come lontanissima.
Così torniamo al tema della riconoscenza del bello. Un luogo si sostituisce ad una persona, ma il senso è lo stesso. Se viaggiamo senza riconoscere e lottare per il bello, stiamo prendendo in giro i nostri sogni e ci poniamo con il cervello e il cuore in vacanza.
Dobbiamo forse stravolgere un altro detto biblico: "Ama il tuo prossimo come te stesso".
Cosa c'entra?
In ambito cristiano l'amare è relegato ad un ambito di luoghi molto ristretto: il soggetto (te stesso) e chi ti sta più vicino (il tuo prossimo). L'estremo, cioè il veramente esterno (terre lontane comprese) non è contemplato.
Se prendiamo i tre gradi degli aggettivi di luogo (interno, esterno e vicino) con le relative forma superlative (intimo, estremo, prossimo), possiamo osservare bene che l'ambito dell'amore cristiano si ferma all'intimo (te stesso) e al prossimo (il più vicino). L'estremo, che rappresenta i luoghi del viaggio, non è contemplato come posto da amare, cioè al quale riconoscere bellezza e per il quale impegnarsi in guerra.
Quel detto cristiano dovrebbe essere rielaborato utilizzando tutti e tre i termini come segue: "Ama l'estremo e il prossimo perché sono contigui a te stesso". La bellezza esotica o antica (come estremi geografici e temporali) e quella prossima (vicina nel tempo e nello spazio) sono fatte di una materia contigua (non aliena o separata) alla tua intimità, somma o infima che tu la percepisca.
Allora, dovendo fare i conti con il quotidiano, il solo viaggio possibile è la fuga insensata (trasformando il viaggio in turismo vacanziero o in paradiso artificiale) oppure provare a tracciare un itinerario sensato della propria vita, facendo i conti fino in fondo con quanto incontriamo sul suo percorso e stando pronti a riconoscere e combattere per il bello (trasformando il viaggio in Odissea, seppur col rischio di dover combattervi durante una Guerra di Troia).

CONCLUSIONE: LA POLIS-POLITICA

Perché allora il titolo "Politica della bellezza"?
Perché l'esotico e l'antico sono ormai nei paraggi, cioè li possiamo riconoscere sempre più prossimi a noi stessi.
Il bello, se va riconosciuto attraverso gli altri e in un itinerario minimo che ci porti almeno fuori casa, dobbiamo iniziare a riconoscerlo là dove ci aggiriamo quotidianamente, nella polis.
La bellezza esotica o antica la troviamo nei paraggi di casa se solo soffermiamo i nostri sguardi sui particolari della città e sulle persone che ci transitano accanto. Entrambi, particolari di luogo e di persone provengono da tempi e luoghi più o meno lontani (sono esotici e antichi).
Voglio dire che se ci costruiscono una discarica in casa protestiamo, ma troppo spesso siamo portati a non far nulla se la discarica ce la troviamo sotto casa o se la costruiscono nel paese accanto al nostro.
Se provassimo a riconoscere qualcosa di bello nei nostri itinerari quotidiani, saremmo portati ad interessarci maggiormente della politica, a fare qualcosa per migliorare la bellezza dei nostri viaggi, più vicini che talvolta chiamiamo "odissee quotidiane", cioè a richiedere alla nostra città quello che si cerca nei viaggi esotici: una diversa dimensione e qualità della vita.
Se la situazione di trovarci a far shopping tra prodotti di un consumo rapido ed intimo, esposti in contesti di un gigantismo concentrazionale ai quali arrivare 'motu proprio' tra un percorso di discariche, con mezzi inquinanti; se tutto questo lo percepiamo talvolta come un agire coatto verso, nel e con la bruttura siamo pronti alla rivolta di Camus. Siamo prossimi a scendere in politica per riappropriarci del bello cercando di re-immaginare la nostra città. Iniziamo a considerare contigua a noi quell'attività che la psicoanalisi (l'intimo) ha sempre rimosso: la politica. Quell'attività di liberazione contemporaneamente personale e sociale che fornisce di senso la vita quotidiana.
Così come già oggi accade che una bellezza esotica da salvare induca ad una 'nobile' mobilitazione ambientalista per una cause lontana (percepibile come 'estrema'), se il senso del lontano ed del prossimo a noi saranno man mano ricondotti ad un concetto di contiguità, si otterrà allo stesso modo di mobilitare politicamente 'a difesa o al pro' di una bellezza più difficile da riconoscere. Quella bellezza che sta tra casa nostra (l'intimo) e l'amazzonia (l'estremo): la città, il luogo della politica e dei cittadini.
Il libro di Hillman ci dice questo: tra la psicoanalisi e l'ambientalismo c'è la politica. La primo combatte il narcisismo, il secondo la devastazione ambientale, la terza l'alienazione della vita ridotta a consumarsi in una terra desolata. Il fare politica lo si può dunque configurare come contiguità di un'azione liberatrice della bellezza, che ripristina il ponte tra l'io (intimo) e l'altro (estremo) paragonabile ad un ponte con la Grecia della polis, tra filosofia e mitologia.
Così al richiamo delle sirene dell'interiorità psicologica e dell'esteriorità ambientale, le voci della politica ci riconducono alla prassi dialettica dell'agorà, cioè in quel luogo 'bastardo' (meticcio) dove si aggirano discutendo animatamente coloro che provano a re-immaginare se stessi e il mondo.


(Luca Guglielminetti)

giovedì 25 febbraio 2010


JASPERS, L'ESSERE E' INCIRCOSCRIVIBILE

Noi viviamo stabilmente quasi come in un orizzonte del nostro sapere, ciò non di meno ci spingiamo oltre ogni orizzonte che ci rinserra e ci toglie la visuale. Ma noi non conosciamo nessun punto stabile, da cui sparisca l'orizzonte limitatore, da cui si possa abbracciare la totalità illimitata, in sé chiusa al di là di ogni orizzonte e che non rimanda a nulla oltre di sé. E noi non raggiungiamo nemmeno una serie di punti di vista attraverso la cui totalità - proprio come avviene in una circumnavigazione - sia possibile raggiungere, mediante un movimento che trascorra da uno all'altro orizzonte, l'unico essere in sé concluso. L'essere resta per noi incircoscrivibile, esso si trascina da ogni parte verso l'infinito. Questo essere noi lo chiamiamo la «comprensività infinita». Essa non è l'orizzonte nel quale sta il nostro particolare sapere, ma ciò che non si rende mai visibile, neppure soltanto come orizzonte, ciò anzi da cui sorgono tutti i nuovi orizzonti. «L'infinita comprensività» è ciò che sempre soltanto si annuncia negli oggetti che ci sono presenti e negli orizzonti, ma che non diviene mai oggetto. È ciò che non presenta mai se stesso, ma in cui tuttavia tutto il resto si manifesta. Essa è, al tempo stesso, ciò che fa sí che tutte le cose non siano soltanto quelle che sembrano a prima vista, ma restino come trasparenti.



(k. Jaspers, La filosofia dell'esistenza)