Elea-Velia

Elea-Velia

sabato 27 febbraio 2010

Politica delle bellezza


Ri-scrivendo James Hillman

Politica della bellezza raccoglie una serie di saggi, pubblicati separatamente da James Hillman tra il 1994 e il 1999, curati e tradotti da Francesco e Paola Donfrancesco. Hillman ci dice sostanzialmente questo: i fattori rimossi più significativi delle nostra psicologia contemporanea sono la bellezza e la politica.
Non avendo senso riportare il succo dei diversi saggi inclusi nel libro, abbiamo provato a raccontarli con altre parole.

RICONOSCENZA DELLA BELLEZZA: L’ILIADE
A prima vista l'essere riconoscenti verso una persona sembra sia solo relativo ad una ammissione di credito verso la persona "riconosciuta". Se diciamo a qualcuno: "Grazie di esistere", la frase si più tramutare in forma più dettagliata con qualcosa tipo: "Riconosco in te qualcosa di importante che mi fa essere grato nei tuoi confronti", da cui nasce quel ringraziare che riconosce.
Il termina va in realtà scomposto nel suo verbo d'origine ri-conoscere.
La riconoscenza ha a che fare con un forma di nuovo conoscere: "Ti conoscevo, ma adesso ti ri-conosco", e concerne un ambito di immagini che si vanno identificando sempre più chiaramente.
Si riconoscono dei segni, dei simboli, delle immagini "difficili", che prima si conoscevano ma con una forma non ben definita, imprecisa, superficiale o rimossa.
Il verbo 'riconoscere' possiede però una ambivalenza: si riconoscono i debiti, ma si riconoscono anche le colpe.
"Adesso che ti ho riconosciuta so di avere un debito con te, lo riconosco", quando è la bellezza di una persona ad essere riconosciuta, il tipo di debito pare non saldabile. Se chi riconosce non è un narciso perso in se stesso, quel debito può solo far scaturire riconoscenza. Un specie di grazie ostinato e continuato, quasi perenne se il debito è percepito come più "grande di me".
Anche per le colpe, "Adesso che ho riconosciuto la mia colpa so di avere un credito di scuse con te, lo riconosco", in questo caso è il credito di scuse che tende a farsi ostinato e continuato, quasi perenne se la colpa è percepita come più "grande di me".
Le persone quando si riconoscono si ringraziano o si scusano, a seconda dei casi, con delle modalità cui oggi è difficile dare, nei contesti del bello e dell'amore, forma o verbo. Dire "grazie" o "scusa", ci appare un formalismo vuoto. Ma in verità ci pare necessario ricondurli alla base di una conoscenza avanzata che riconosce qualcosa all'altro. Una conoscenza consapevole del bene ricevuto dall'altro o del male arrecato all'altro.
Riconoscere possiede dunque due derivazioni dal suo stato di azione attiva (il fatto di riconoscere): una forma negativa attiva (chiedo scusa) ed una positiva passiva (ti ringrazio), che talvolta si utilizzano in un contesto profondo che sa di 'colpa grave' o di 'grazia ricevuta'.
L'accezione negativa della riconoscenza, ha un sapore sicuramente cristiano: il moralista cristiano ci induce a "riconoscere le nostre colpe". In ambito cattolico diventa difficile fare scuse perché ci si è già confessati: espiata la colpa nel confessionale perché assumersi la responsabilità di scusarsi "in eterno" con la propria vittima? In questo senso il protestante è più serio, salvo che poi abbia finito per non sentirle proprio le colpe: l'uomo di cultura protestante semplicemente non le riconosce più come tali e finisce dallo psicanalista.
Ma non vorrei dilungarmi sul tema della riconoscenza della colpa. Mi interessa, invece, soffermarmi su di un altro concetto: quello di "grazia ricevuta" in relazione al riconoscimento della bellezza di una persona che induce a ringraziarla.
Quando diciamo a un'altro "Grazie di esistere", qualcuno che osservi da fuori può dire che abbiamo ricevuto una grazia, "siamo stati graziato", abbiamo avuto qualcosa come "grazia ricevuta".
L'idea di "grazia ricevuta" è utilizzata, in ambito cristiano, per segnalare una illuminazione divina. Quando un uomo è toccato da una nuova conoscenza chiamata fede in Dio, si dice che abbia ricevuto la grazia di Dio. Il cristianesimo fa suo questo modo di conoscere che passa attraverso la riconoscenza di "qualcosa di grande" che obbliga a pregare. Un pregare che è un ringraziare 'perenne' Dio del dono della fede.
E' però evidente che l'unica cosa che ai cristiani è permesso di riconoscere è la grandezza di Dio. Alcuni protestanti sono stati molto accorti nel segnalare un passo del Vangelo che dice "Dio è amore". In questo modo potevano dire agli uomini che riconoscevano bellezza e amore, che quanto riconosciuto era in verità solo Dio, e non certo una divinità dell'Amore pagano, quale Afrodite.
Se in ambito religioso, il "grazie perenne" che si rivolge a Dio diventa preghiera, cosa capita in ambito 'pagano', se ciò che riconosciamo è una grande bellezza terrestre e non celestiale? Dove porta quel bello che non è trascendentale, posto fuori dal mondo, ma immanente, cioè di questo mondo? A cosa conduce quella riconoscenza del bello di una persona?
Conduce alla seduzione, cioè a quell'iter che realizza l'amore.
Riconoscere la bellezza, equivale a riconoscere di essere stati sedotti. La riconoscenza, quel ringraziare che riconosce, non si può che fare preghiera o poesia se posto a livello di agape, ma si dovrà attivare a sua volta in seduzione nei confronti della persona riconosciuta se rivolto all'eros.
Oggi, occorre prendere atto che il verbo riconoscere è declinato in relazione a cantanti, uomini di spettacolo, attori e sportivi se non modelli di macchine e di moda. Riconosciamo gli attori dei film, la musica di un band, il viso di un calciatore, la marca di una griffe o il modello di casa automobilistica. Si viene socialmente apprezzati dagli altri se dimostriamo queste capacità di riconoscimento; si viene, viceversa, derisi se uno dice: "Quella ragazza è veramente bella!". Oggi, nell'interloquire sulla bellezza di una ragazza o ragazzo accettiamo solo termini come 'carina', 'belloccia', se non più espliciti riferimenti al sesso, etc…, o al maschile. Lo stesso termine sedurre è poco usato in quanto sostituito da termini come 'corteggiare' o 'filare', 'battagliare'. Il senso di questi termini deriva dal fatto che la fase di seduzione è spesso ridotta al minimo nei modi e nei tempi e sono sintomo dell'eclissi del valore della bellezza umana.
Del resto quello che oggi seduce veramente, cui siamo maggiormente disposti a lottare e pazientare, non ha molto a che fare con il riconoscimento della bellezza e dell'amore. Si è sedotti dalla sicurezza dei soldi che ci permetteranno di fare shopping. Si è sedotti dal pensare di poter riempire le borse da shopping di tutto quanto siamo indotti a pensare come bello, cioè necessario a gratificarci.
La Elena omerica, e il suo archetipo Afrodite, sono veramente in esilio. Bello è ciò che piace al mercato, anzi quello che l'industria vende alla massa dei consumatori con sopra l'etichetta di bello. Il bello è quello che vende, non quello che fa conoscere l'amore. Il bello non spinge più a conoscere per sedurre, ma lo si acquista per gratificarci. E' una forma di narcisismo che ci fa dire: "Come sono contento, anch'io sono arrivato a potermi comprare il prodotto x!"
Di fronte alla bellezza di una persona siamo disposti a 'battagliare' per un po', ma molto meno a condurre una guerra di Troia. L'Iliade nostra sembra un'altra. E' quella guerra per acquistare una solida posizione del mercato dei consumatori dove tutte le nostre energie e forze sono indirizzate, anche perchè la bellezza non si conquista, appunto, ma sempre più si acquista.
Se solo diciamo, invece che "Dio è amore", "amore è riconoscenza", possiamo concludere questa parte del discorso dicendo che l'atto che suscita l'amore è l'atto di riconoscere la bellezza. E' quell'atto che ci spinge, con le modalità coatte erotico/seducenti, alla scoperta profonda dell'altro. La lotta per amare nella riconoscenza ci libera dai nostri angusti limiti personali (quel sentirsi più grandi dei nostri confini quando riconosciamo la grandezza degli altri) e nella seduzione ci induce all'agire attivamente verso l'amato/a (si tratta di farsi ri-conoscere sempre di più).
Se vogliamo amore dobbiamo spingerci a conoscere gli altri riconoscendone, in primis, la bellezza e quindi prendendosi tutto il tempo che una guerra richiede. Al contrario, non riconoscendo la bellezza o considerandola una breve battaglia, si sceglie di vivere in quella specie di ignoranza e ipocrita consapevolezza che si chiama conformismo, o "ottundimento psichico", come lo chiama Hillman citando Lifton, che ci avvia a renderci un esercito di consumatori che lottano nei supermercati alla ricerca di 'prodotti di bellezza'.

VIAGGI VICINI E LONTANI: L’ODISSEA
Perché viaggiamo? Ci piace viaggiare, sognare un posto, desiderarlo e poi andarci. Ma i viaggi oggi non sono odissee, se non per i disguidi e ritardi degli aerei. Non impariamo più nulla dal posto dove andiamo: ci lascerà impressioni, suoni, colori, ma torniamo senza saper nulla delle gente, dei luoghi, degli animali e delle piante che abbiamo visto. Sì, ci siamo stati, l'abbiamo viste quelle terre e quelle persone lontane, ma dimentichiamo che nel nostro sogno in quei luoghi cercavamo la vita, un maggiore senso della vita: una nuova casa. Ci accontentiamo invece delle cartoline musicali che serbiamo in quell'album di ricordi che è la nostra memoria. Del resto vorremmo viaggiare anche per conoscere, ma ci portiamo dietro tutto quanto già conosciamo: dal dentifricio all'amico vicino, dalla maglietta al libro dell'autore preferito. A quanto di già noto ci portiamo dietro, si aggiunge poi quel quanto di già noto troviamo colà: dalla Coca-cola e alla Tv, dalla cucina internazionale al capo "made in Italy".
I tempi contingentati delle ferie, costringono poi ad utilizzare il mezzo più stupido: l'aereo. Icaro non ha proprio insegnato niente. Il punto non è la superbia dell'atto di voler volare, ma la stupidità di voler percorrere ampie distanze con la testa fra le nuvole, alienati da quello che è il percorso del viaggio. Il carattere avventuro del viaggio risiede proprio nelle difficoltà del tragitto; mentre la sua impressione maggiore sorge dall'osservare quanto sta nel mezzo tra la casa reale e quella dei sogni.
Così, dopo un viaggio, la vita quotidiana resta tale e quella sognata un desiderio represso. Oppure si dirà che era tutta una finta. La nostra vita ci piace così com'è. Il viaggio è stato solo uno sfizio, un tentativo fasullo e scherzoso di accedere ad un'altra vita in un altro luogo.
Ecco il turismo. Il viaggiare fine a se stesso, prodotto di consumo atto a soddisfare le voglie esotiche dei nostri sogni.
Così torniamo nelle nostre case e non possiamo fare altro che, depliant turistici alla mano, solleticare le nostre sterili fantasie geografiche, alla ricerca di una nuova meta da desiderare per l'anno successivo.
Parlo del viaggio, perché il sogno/desiderio di raggiungere un estremo, percepito più o meno lontano da quella casa che è la nostra vita quotidiana, è in verità un altro stimolo verso il bello, o l'amore come compimento di un percorso. Quel bello che si trova frustrato o assente quanto ridotto a turismo. Quando vogliamo abbandonare lo 'stranoto', il conosciuto quotidiano che ci annoia a morte, allora sogniamo posti estremi, più o meno lontani. Lo facciamo perché in quel luogo vi riconosciamo qualcosa di essenziale per noi, per il senso della nostra vita: la sua bellezza.
Un tipo di bellezza cui si aggiungere l'aggettivo "esotica" o "antica",quando è percepita come lontanissima.
Così torniamo al tema della riconoscenza del bello. Un luogo si sostituisce ad una persona, ma il senso è lo stesso. Se viaggiamo senza riconoscere e lottare per il bello, stiamo prendendo in giro i nostri sogni e ci poniamo con il cervello e il cuore in vacanza.
Dobbiamo forse stravolgere un altro detto biblico: "Ama il tuo prossimo come te stesso".
Cosa c'entra?
In ambito cristiano l'amare è relegato ad un ambito di luoghi molto ristretto: il soggetto (te stesso) e chi ti sta più vicino (il tuo prossimo). L'estremo, cioè il veramente esterno (terre lontane comprese) non è contemplato.
Se prendiamo i tre gradi degli aggettivi di luogo (interno, esterno e vicino) con le relative forma superlative (intimo, estremo, prossimo), possiamo osservare bene che l'ambito dell'amore cristiano si ferma all'intimo (te stesso) e al prossimo (il più vicino). L'estremo, che rappresenta i luoghi del viaggio, non è contemplato come posto da amare, cioè al quale riconoscere bellezza e per il quale impegnarsi in guerra.
Quel detto cristiano dovrebbe essere rielaborato utilizzando tutti e tre i termini come segue: "Ama l'estremo e il prossimo perché sono contigui a te stesso". La bellezza esotica o antica (come estremi geografici e temporali) e quella prossima (vicina nel tempo e nello spazio) sono fatte di una materia contigua (non aliena o separata) alla tua intimità, somma o infima che tu la percepisca.
Allora, dovendo fare i conti con il quotidiano, il solo viaggio possibile è la fuga insensata (trasformando il viaggio in turismo vacanziero o in paradiso artificiale) oppure provare a tracciare un itinerario sensato della propria vita, facendo i conti fino in fondo con quanto incontriamo sul suo percorso e stando pronti a riconoscere e combattere per il bello (trasformando il viaggio in Odissea, seppur col rischio di dover combattervi durante una Guerra di Troia).

CONCLUSIONE: LA POLIS-POLITICA

Perché allora il titolo "Politica della bellezza"?
Perché l'esotico e l'antico sono ormai nei paraggi, cioè li possiamo riconoscere sempre più prossimi a noi stessi.
Il bello, se va riconosciuto attraverso gli altri e in un itinerario minimo che ci porti almeno fuori casa, dobbiamo iniziare a riconoscerlo là dove ci aggiriamo quotidianamente, nella polis.
La bellezza esotica o antica la troviamo nei paraggi di casa se solo soffermiamo i nostri sguardi sui particolari della città e sulle persone che ci transitano accanto. Entrambi, particolari di luogo e di persone provengono da tempi e luoghi più o meno lontani (sono esotici e antichi).
Voglio dire che se ci costruiscono una discarica in casa protestiamo, ma troppo spesso siamo portati a non far nulla se la discarica ce la troviamo sotto casa o se la costruiscono nel paese accanto al nostro.
Se provassimo a riconoscere qualcosa di bello nei nostri itinerari quotidiani, saremmo portati ad interessarci maggiormente della politica, a fare qualcosa per migliorare la bellezza dei nostri viaggi, più vicini che talvolta chiamiamo "odissee quotidiane", cioè a richiedere alla nostra città quello che si cerca nei viaggi esotici: una diversa dimensione e qualità della vita.
Se la situazione di trovarci a far shopping tra prodotti di un consumo rapido ed intimo, esposti in contesti di un gigantismo concentrazionale ai quali arrivare 'motu proprio' tra un percorso di discariche, con mezzi inquinanti; se tutto questo lo percepiamo talvolta come un agire coatto verso, nel e con la bruttura siamo pronti alla rivolta di Camus. Siamo prossimi a scendere in politica per riappropriarci del bello cercando di re-immaginare la nostra città. Iniziamo a considerare contigua a noi quell'attività che la psicoanalisi (l'intimo) ha sempre rimosso: la politica. Quell'attività di liberazione contemporaneamente personale e sociale che fornisce di senso la vita quotidiana.
Così come già oggi accade che una bellezza esotica da salvare induca ad una 'nobile' mobilitazione ambientalista per una cause lontana (percepibile come 'estrema'), se il senso del lontano ed del prossimo a noi saranno man mano ricondotti ad un concetto di contiguità, si otterrà allo stesso modo di mobilitare politicamente 'a difesa o al pro' di una bellezza più difficile da riconoscere. Quella bellezza che sta tra casa nostra (l'intimo) e l'amazzonia (l'estremo): la città, il luogo della politica e dei cittadini.
Il libro di Hillman ci dice questo: tra la psicoanalisi e l'ambientalismo c'è la politica. La primo combatte il narcisismo, il secondo la devastazione ambientale, la terza l'alienazione della vita ridotta a consumarsi in una terra desolata. Il fare politica lo si può dunque configurare come contiguità di un'azione liberatrice della bellezza, che ripristina il ponte tra l'io (intimo) e l'altro (estremo) paragonabile ad un ponte con la Grecia della polis, tra filosofia e mitologia.
Così al richiamo delle sirene dell'interiorità psicologica e dell'esteriorità ambientale, le voci della politica ci riconducono alla prassi dialettica dell'agorà, cioè in quel luogo 'bastardo' (meticcio) dove si aggirano discutendo animatamente coloro che provano a re-immaginare se stessi e il mondo.


(Luca Guglielminetti)

Nessun commento: