Elea-Velia

Elea-Velia

martedì 9 marzo 2010

Hannah Arendt: La vita della mente





















Noi siamo del mondo e non semplicemente in esso
Apparire significa sempre parere agli altri e questo parere varia secondo il punto di vista e la prospettiva degli spettatori. In altre parole, ogni cosa che appare, in virtù del suo apparire, acquisisce una sorta di travestimento che può in verità — benché non necessariamente — dissimularla o deformarla. Il parere corrisponde al fatto che ogni apparenza, ad onta della propria identità, è percepita da una pluralità di spettatori.

L’impulso all’autoesibizione — reagire con il mostrarsi all’effetto schiacciante dell’essere mostrati — sembra comune a uomini e animali. E allo stesso modo in cui l’attore dipende per il suo ingresso in scena dal palcoscenico, dalla compagnia e dagli spettatori, così ogni essere vivente dipende da un mondo che appare quale luogo per la propria apparizione, dai suoi simili per recitare la sua parte con loro, dagli spettatori perché la sua esistenza sia ammessa e riconosciuta.

Le attività spirituali in virtù delle quali ci distinguiamo dalle altre specie animali, benché presentino grandi differenze, hanno però tutte in comune un ritrarsi dal mondo quale appare e un ripiegamento verso l’io. Ciò non comporterebbe nessun grave problema se noi fossimo semplici spettatori, creature divine gettate nel mondo per vegliare su di esso, per goderne o esserne divertiti, ma pur sempre in possesso di un’altra regione come nostro habitat naturale. Il fatto, però, è che noi siamo del mondo e non semplicemente in esso: anche noi siamo apparenze, proprio in virtù del nostro arrivare e partire, apparire e scomparire; e sebbene provenienti da nessun luogo giungiamo equipaggiati di tutto punto per far fronte a qualunque cosa ci appaia, e prendere parte al teatro del mondo.

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 102

Come ci si presenta agli altri
L’uomo coraggioso non è colui nella cui anima tale sentimento sia assente, né colui che sappia vincerlo una volta per tutte, bensì chi ha deciso che la paura non è quanto vuole mostrare. Il coraggio può divenire poi una seconda natura o un’abitudine, ma non nel senso che alla paura si sostituisce la sua assenza, come se quest’ultima potesse a sua volta diventare un sentimento. Simili scelte sono determinate da fattori svariati; in molti casi sono predeterminate dalla cultura in cui nasciamo — le compiamo perché desideriamo piacere agli altri. Ma esistono anche scelte non ispirate dal nostro ambiente: vi siamo indotti dal desiderio di piacere a noi stessi o di stabilire un esempio, cioè dal desiderio di persuadere gli altri ad apprezzare ciò che piace a noi. Qualunque sia il motivo, il successo e il fallimento dell’operazione di autopresentazione dipendono dalla coerenza, e perciò dalla durata, dell’immagine che in questo modo presentiamo al mondo.

Siccome le apparenze si presentano sempre nelle vesti del parere, simulazione e inganno intenzionale da parte dell’attore, errore ed illusione da parte dello spettatore figurano, inevitabilmente, tra le loro intrinseche potenzialità. L’autopresentazione si distingue dall’autoesibizione grazie alla scelta attiva e consapevole dell’immagine mostrata: l’esibirsi non ha altra scelta che mostrare tutte le proprietà in possesso di un essere vivente. L’autopresentazione non sarebbe invece possibile senza un certo grado di consapevolezza di sé, capacità connaturata al carattere riflessivo delle attività spirituali che trascende, chiaramente, la semplice coscienza che con ogni probabilità l’uomo ha in comune con gli animali superiori.

Ogni virtù comincia quando le rendo un omaggio con il quale esprimo il mio compiacermi di essa. L’omaggio implica una promessa al mondo, a coloro cui io appaio, di agire in armonia con questo compiacermi ed è l’infrazione di questa promessa implicita che caratterizza l’ipocrita. In altre parole, l’ipocrita non è un malvagio che si compiace del vizio e nasconde il suo compiacimento a chi lo circonda. La prova che rivela l’ipocrita è l’antico motto socratico «Sii quale desideri apparire», che significa appari sempre come desideri apparire agli altri anche se ti capita di esser solo e di non apparire che a te stesso. Nel prendere tale decisione, non mi trovo semplicemente a reagire a questa o a quella qualità datami in sorte: sto compiendo un atto di scelta deliberata tra le molteplici potenzialità di condotta che il mondo mi offre.

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 118


I pensieri non hanno nulla delle proprietà che possono attribuirsi all’io o a una persona
Se rifletto sulla relazione di me con me stesso che governa l’attività di pensiero, si direbbe che ogni cosa avvenga proprio come se i miei pensieri fossero «semplici
rappresentazioni», o manifestazioni di un io che in sé rimane eternamente celato, poiché ovviamente i pensieri non hanno nulla delle proprietà che possono attribuirsi all’io o a una persona. L’io che pensa è la vera «cosa in sé» di Kant: esso non appare agli altri e, diversamente dall’io della consapevolezza di sé, non appare a se stesso, e tuttavia non è nulla.

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 125

Alla morte il mondo non si altera ma cessa
Sarebbe spettato a Wittgenstein, infine, che si era prefisso di indagare «in che misura il solipsismo sia una verità» e ne divenne così il più eminente esponente contemporaneo, di dare formulazione all’illusione esistenziale soggiacente a tutte queste teorie: «Alla morte il mondo non si altera ma cessa». «La morte non è un evento della vita; la morte non si vive». Il che costituisce la premessa di fondo di ogni pensiero solipsistico.

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 133

Pensare, cioé speculare in modo da attribuire significati all’ignoto o all’inconoscibile
Una volta, a proposito di Platone, Kant ebbe a osservare «che non è per nulla insolito, mediante il confronto dei pensieri che un autore espone sul suo oggetto... scoprire che lo intendiamo meglio che egli non intendesse se medesimo. Come se non avesse determinato abbastanza il suo concetto, egli talvolta parlava, o anche pensava, contrariamente alla sua stessa intenzione» che, naturalmente, si applica anche alla stessa opera kantiana).

Se Kant non avesse tolto i ceppi al pensiero speculativo, l’idealismo tedesco e i suoi sistemi metafisici difficilmente avrebbero veduto la luce. Altrettanto vero, è che il nuovo tipo di filosofi — Fichte, Schelling, Hegel — non gli sarebbe piaciuto. Emancipati, grazie a Kant, dal vecchio dogmatismo scolastico e dai suoi sterili esercizi, incoraggiati proprio da lui ad abbandonarsi al pensiero speculativo, essi presero piuttosto lo spunto da Descartes, si misero a caccia di certezze, confusero una volta di più la linea di demarcazione tra pensiero e conoscenza, sino a credere in tutta serietà che i risultati delle loro speculazioni possedessero lo stesso genere di validità dei risultati dei processi conoscitivi.

Sebbene gli uomini siano esistenzialmente del tutto condizionati — limitati dall’arco di tempo tra la nascita e la morte, aggiogati per vivere alla fatica e al lavoro, stimolati a creare opere al fine di sentirsi a casa loro nel mondo, spinti all’azione per trovare il proprio luogo nella società dei loro simili — possono trascendere spiritualmente tutte queste condizioni, ma solo spiritualmente, si badi, non nella realtà o nel sapere e nella conoscenza che li fanno capaci di esplorare l’esser-reale del mondo ed il proprio. Essi possono giudicare positivamente o negativamente le realtà entro cui sono nati e da cui sono insieme condizionati; possono volere l’impossibile, ad esempio, una vita eterna; possono pensare, cioé speculare in modo da attribuire significati all’ignoto o all’inconoscibile. E sebbene tutto questo non possa cambiare immediatamente la realtà — nel nostro mondo non c’è in realtà opposizione più netta e radicale di quella tra il pensare ed il fare — i principi in base ai quali si agisce, e i criteri con cui si giudica e si conduce la propria vita, dipendono in ultima analisi dalla vita della mente. Essi dipendono, insomma, dall’esecuzione di queste operazioni spirituali manifestamente inutili, che non portano a nessun risultato e «non procurano immediatamente forze per l’azione» (Heidegger). L’assenza di pensiero costituisce effettivamente un fattore potente degli affari umani, in termini statistici il più potente di tutti, non solo nella condotta della moltitudine, ma nella condotta di tutti. L’urgenza stessa, la a-scholia, degli affari umani esige giudizi provvisori o vuole che ci si affidi al costume e all’abitudine, e quindi ai pregiudizi.

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 153

La caratteristica principale delle attività della mente è la loro invisibilità
Nella prospettiva del mondo delle apparenze e delle attività da esso condizionate, la caratteristica principale delle attività della mente è la loro invisibilità. A rigore, esse non appaiono mai, benché si manifestino all’io che pensa, che vuole, che giudica, il quale è consapevole di essere attivo e tuttavia manca della capacità o dello stimolo per apparire come tale.

In altri termini, all’invisibile che si manifesta al pensiero corrisponde una facoltà umana che, diversamente da altre facoltà, non solo è invisibile finché è latente, allo stato di semplice potenzialità, ma permane non manifesta anche quando sia pienamente in atto.

Per questo verso, come per altri, la mente è decisamente altro dall’anima, che costituisce la sua principale concorrente al rango di sovrana della nostra vita interiore, non visibile. L’anima, da cui sgorgano le nostre passioni, i nostri sentimenti e le nostre emozioni, è un vortice più o meno caotico di eventi che noi non mettiamo in atto, ma patiamo e che in circostanze di forte intensità possono travolgerci, come avviene con il dolore o il piacere; l’invisibilità dell’anima assomiglia a quella degli organi interni del corpo, di cui avvertiamo il funzionamento o la disfunzione senza essere in grado di controllarli. La vita della mente, al contrario, è pura attività, un’attività che, alla stregua delle altre, può essere avviata o interrotta a volontà. Per di più, quantunque la loro sede sia invisibile, le passioni posseggono una propria espressività: si arrossisce per la vergogna o l’imbarazzo, si impallidisce di paura o di rabbia, si può essere raggianti di felicità o aver l’aria abbattuta, ed è necessario un notevole esercizio di auto-controllo per impedire alle passioni di mostrarsi. La sola manifestazione esteriore della mente è la distrazione, un’evidente noncuranza del mondo circostante, qualcosa di completamente negativo che non accenna in alcun modo a ciò che sta realmente accadendo dentro di noi.

Nessun atto della mente, meno che mai l’atto di pensare, si appaga del suo oggetto quale gli è dato dalla vita o dal mondo. Esso trascende sempre la mera datità di qualsiasi cosa abbia suscitato la sua attenzione, per trasformarla in ciò che Pier Giovanni Olivi, il filosofo francescano della Volontà attivo nel tredicesimo secolo, chiamava un “esperimento dell’io con se stesso”.

Essere presso di sé e intrattenere rapporti solo con se stessi costituiscono la caratteristica principale della vita della mente.

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 156

L’io pensante scomparirà non appena il mondo reale ritorni ad imporre se stesso
Di fatto, io sono consapevole delle facoltà della mente e della loro riflessività solo finché dura la loro attività. E come se gli organi stessi del pensiero, della volontà, del giudizio sorgessero alla luce soltanto quando penso, voglio o giudico: allo stato latente, ammesso che simile latenza esista, anteriormente all’attualizzazione essi non sono accessibili all’introspezione. L’io pensante, del quale sono perfettamente conscio finché dura l’attività di pensiero, scomparirà come se fosse un puro miraggio non appena il mondo reale ritorni ad imporre se stesso.

E’ un ritiro non tanto dal mondo — solo il pensiero per la sua tendenza a generalizzare, cioè il suo interesse nel generale rispetto al particolare, tende a ritrarsi completamente dal mondo — quanto dal suo essere presente ai sensi. Ogni atto spirituale si fonda sulla facoltà della mente di aver presente a se stessa ciò che è assente ai sensi. La rappresentazione (nel senso di ri-presentazione) che rende presente ciò che di fatto è assente, costituisce la dote incomparabile della mente, e poiché la nostra intera terminologia relativa alla mente si basa su metafore tratte dalla esperienza della visione, tale dote ha nome immaginazione, definita da Kant «la facoltà d’intuizione anche senza la presenza dell’oggetto». La facoltà della mente di rendere presente ciò che è assente, naturalmente non è per nulla circoscritta alle immagini mentali di oggetti assenti: in un senso assai più generale, la memoria immagazzina e tiene a disposizione del ricordo tutto ciò che non è più, mentre la volontà anticipa tutto ciò che il futuro può apportare, ma non è ancora. Solo in virtù della capacità della mente di rendere presente ciò che è assente possiamo dire «non più» e costituire a noi stessi un passato, possiamo dire «non ancora» e predisporci a un futuro. Ma ciò non è possibile alla mente se non dopo che si sia ritratta dal presente e dalle urgenze della vita quotidiana. Così, per volere, la mente deve ritrarsi dall’immediatezza del desiderio che, senza riflettere e senza riflessività, protende la mano per impadronirsi dell’oggetto desiderato: la volontà non ha che fare con oggetti, ma con progetti; per esempio, con la disponibilità futura di un oggetto che, nel presente, essa può anche non desiderare.

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 159

L’immaginazione trasforma un oggetto visibile in un’immagine invisibile
L’oggetto del pensiero è differente dall’immagine, come l’immagine differisce dall’oggetto visibile del senso di cui è semplice rappresentazione. E’ a causa di questa duplice trasformazione che il pensiero «di fatto va anche oltre», ben oltre la sfera di ogni possibile immaginazione, «quando la ragione proclama l’infinità del numero che nessuna visione nel pensiero di cose corporee ha mai afferrato» o «ci insegna che anche i corpi più piccoli sono divisibili all’infinito». L’immaginazione, pertanto, che trasforma un oggetto visibile in un’immagine invisibile, idonea a essere immagazzinata nella mente, costituisce la condizione sine qua non per fornire alla mente convenienti oggetti di pensiero; ma tali oggetti di pensiero, a loro volta, vengono alla luce solo quando la mente ricorda in modo attivo e deliberato, raccoglie e tra-sceglie dal deposito della memoria tutto ciò che desti il suo interesse in maniera sufficiente da causare concentrazione. In queste operazioni la mente apprende come affrontare e trattare le cose che sono assenti, e si prepara insieme ad «andare oltre», verso la comprensione di cose che sono per sempre assenti, di cui non può esservi ricordo perché non sono mai state presenti all’esperienza sensibile.

Tutte le questioni metafisiche che la filosofia ha assunto come propri temi specifici scaturiscono da ordinarie esperienze del senso comune; «il bisogno della ragione» — la ricerca di significato che spinge gli uomini a formulare tali questioni — non differisce in nulla dal bisogno umano di raccontare la storia di un evento di cui si è stati testimoni o dal bisogno di scrivere poesie su di esso. In tutte queste attività riflessive gli uomini si muovono fuori del mondo delle apparenze e fanno uso di un linguaggio gremito di parole astratte che, naturalmente, prima di divenire la speciale moneta della filosofia, sono state a lungo parte integrante del linguaggio quotidiano. Per il pensiero, allora, sebbene non per la filosofia in senso tecnico, il ritrarsi dal mondo delle apparenze rappresenta la sola precondizione essenziale. Perché noi si pensi a qualcuno, questi deve essere lontano dalla nostra presenza; finché si è con lui, non si pensa né a lui né su di lui; il pensiero implica sempre il ricordo: ogni pensare è propriamente un ri-pensare. Può certo accadere che si cominci a pensare su qualcuno o qualcosa ancora presenti, nel qual caso ci siamo allontanati clandestinamente da ciò che ci circonda, ci stiamo comportando come se fossimo già assenti.

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 161

Nell’atto di pensare io non sono dove sono in realtà: non mi circondano oggetti sensibili, ma immagini invisibili a chiunque altro
Mentre si pensa, non si ha nozione della propria corporeità, tale è l’esperienza che indusse Platone ad attribuire all’anima l’immortalità quando si fosse di-partita dal corpo, che indusse Descartes a concludere che «l’anima può pensare senza il corpo, salvo che, fino a quando sia ad esso congiunta, può benissimo essere molestata nelle sue operazioni dalla cattiva disposizione degli organi corporei».

La Memoria, Mnemosyne, è la madre delle Muse e il ricordo, l’esperienza di pensiero più frequente e insieme fondamentale, ha che fare con cose assenti, scomparse dai sensi. Pure, l’assente che è evocato e reso presente alla mente — una persona, un evento, un monumento — non può apparire nel modo in cui appariva ai sensi, come se il ricordo equivalesse a una sorta di stregoneria. Per apparire soltanto alla mente, esso deve dapprima essere de-sensibiizzato, e alla capacità di trasformare oggetti sensibili in immagini diamo il nome di «immaginazione». Senza tale facoltà, che rende presente ciò che è assente in forma de-sensibilizzata, nessun processo, nessuna sequenza di pensiero sarebbero possibili. Quindi, il pensiero è «fuori dell’ordine» non solo perché arresta tutte le altre attività così indispensabili alle faccende del vivere e del sopravvivere, ma perché capovolge tutti i rapporti ordinari: ciò che è vicino e appare direttamente ai sensi è adesso distante, ciò che è lontano è effettivamente presente. Nell’atto di pensare io non sono dove sono in realtà: non mi circondano oggetti sensibili, ma immagini invisibili a chiunque altro. E come se mi fossi ritirato in una sorta di terra di nessuno, la terra dell’invisibile, di cui non saprei nulla se non mi fosse data questa facoltà di ricordare e di immaginare. Il pensare annulla le distanze, quelle temporali non meno delle spaziali. Posso anticipare il futuro e pensano come se fosse già presente, posso ricordare il passato come se non fosse scomparso.

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 168

Pensare, le attività della mente, la tendenza autodistruttiva
Kant scriveva: «non condivido l’opinione... secondo cui non si dovrebbe dubitare una volta che ci si sia convinti di qualcosa. Nella filosofia pura ciò è impossibile. La nostra mente ne prova un‘avversione naturale».

Abbiamo considerato fin qui le caratteristiche salienti dell’attività di pensiero: il suo ritrarsi dal mondo delle apparenze del senso comune, la tendenza autodistruttiva rispetto ai suoi stessi risultati, la sua riflessività e la consapevolezza di un’attività pura che l’accompagna, senza dimenticare la circostanza bizzarra e inquietante che si possono conoscere le proprie facoltà spirituali solo finché tale attività si protrae: ciò significa che il pensiero stesso non può instaurarsi saldamente come la suprema proprietà della specie umana.

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 173

Le parole, significanti in se stesse, e i pensieri si rassomigliano. Il discorso, quindi, benché in ogni caso «suono significante» non è necessariamente un enunciato o una proposizione in cui siano in giuoco verità e falsità, essere e non essere. Si è già veduto, del resto, come quest’ultimo non sia affatto l’unico caso possibile: una preghiera è si un logos, ma non è né vera né falsa. Dunque, implicita nell’impulso a parlare non è necessariamente la ricerca di verità, bensì la ricerca di significato.

I pensieri non hanno bisogno di essere comunicati per prodursi, ma non possono prodursi se non li si enuncia, a bocca chiusa o a voce alta nel dialogo, secondo il caso.

La funzione di tale discorso senza voce — «ragionare silenziosamente con se stessi» secondo Anselmo di Canterbury — è di venire a capo di tutto ciò che è dato ai sensi nelle apparenze quotidiane; il bisogno di ragione consiste nel rendere conto di tutto ciò che sia o che sia avvenuto. A ciò sospinge non la sete di conoscenza — il bisogno può manifestarsi in connessione con fenomeni ben noti e del tutto familiari — ma la ricerca di significato. Dare un nome alle cose, la pura e semplice creazione di parole, è il modo dell’uomo di far proprio e, per dir così, disalienare un mondo al quale, dopo tutto, ognuno di noi è nato come nuovo venuto e come straniero.

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 184

Le metafore e il cervello
Ogni linguaggio filosofico e grandissima parte del linguaggio poetico sono metaforici, ma non nel senso semplicistico della definizione di «Metafora» come «figura di discorso nella quale un nome o un termine descrittivo è trasferito a un oggetto differente, quantunque analogo, da quello cui è applicabile in senso proprio».

Ogni metafora porta allo scoperto «una percezione intuitiva della somiglianza in cose dissimili» e, secondo Aristotele, rappresenta proprio per questa ragione un «segno del genio», «di gran lunga la cosa più grande».

Secondo Kant questo parlare per analogie, in linguaggio metaforico, è il solo mezzo attraverso il quale la ragione speculativa, che qui chiamiamo pensiero, può manifestare se stessa. Al pensiero senza immagini, «astratto»,. la metafora fornisce un’intuizione tratta dal mondo delle apparenze, la cui funzione è di «provare la realtà

dei nostri concetti» annullando dunque, per così dire, quel ritrarsi dal mondo delle apparenze che è la pre-condizione delle attività spirituali.

Tutti i termini filosofici sono metafore, analogie, per così dire, congelate, il cui significato autentico si dischiude quando la parola sia riportata al contesto d’origine, certo presente in modo vivido e intenso alla mente del primo filosofo che la impiegò. Allorché Platone introdusse nel linguaggio filosofico le parole di tutti i giorni «anima» e «idea» — connettendo un organo invisibile dell’uomo, l’anima, con qualcosa d’invisibile presente nel mondo dell’invisibile, le idee — doveva tuttavia sentir risuonare in quelle parole il loro uso nel linguaggio pre-fiosofico ordinario. Psyche è il «soffio vitale» esalato dal morente, e idea, o eidos, è la sagoma o il modellino che l’artigiano deve avere innanzi agli occhi della mente prima di iniziare la sua opera — un’immagine che sopravvive al processo di fabbricazione così come trascende l’oggetto fabbricato e può fungere da modello ancora una volta e sempre di nuovo, acquisendo così una durata senza fine che la rende idonea all’eternità nel cielo delle idee. L’analogia soggiacente alla dottrina platonica dell’anima è la seguente: come il soffio vitale è in rapporto col corpo che abbandona, cioè col cadavere, così, d’ora innanzi, si reputerà che l’anima sia in rapporto col corpo vivente. E l’analogia soggiacente alla dottrina delle idee può essere ricostruita in modo simile: come l’immagine mentale dell’artigiano dirige la sua mano nel corso della fabbricazione e costituisce la misura della riuscita o dell’insuccesso dell’oggetto, allo stesso modo tutti gli elementi dati materialmente e sensibilmente nel mondo delle apparenze si riferiscono a uno schema invisibile, situato nel cielo delle idee, e sono valutati in rapporto ad esso.

Nessuno prima di Aristotele aveva usato in un senso diverso da accusa la parola katègoria, che designava ciò che veniva detto contro un imputato nel corso delle procedure giudiziarie”. Nell’uso aristotelico, questa parola si trasforma in qualcosa come «predicato», sulla base della seguente analogia: proprio come una imputazione (kategoreuein ti tinos) fa discendere (kata) su un imputato qualcosa di cui lo si accusa, e che perciò gli appartiene, così il predicato attribuisce al soggetto la qualità appropriata.

Leggiamo così in un saggio poco noto di Ernest Fenollosa, che «la metafora è ... la vera sostanza della poesia»; senza di essa, «non vi sarebbe alcun ponte su cui passare dalla verità minore del visibile a quella maggiore dell’invisibile».

Il primo a scoprire questo strumento poetico fu Omero, i cui due poemi pullulano di espressioni metaforiche di ogni sorta. In tale embarras de richesses scelgo il passo dell’Iliade in cui il poeta paragona l’assalto straziante della paura e del dolore nel petto degli uomini all’attacco combinato dei venti da più direzioni sulle acque del mare”. Pensate a queste tempeste che conoscete così bene, sembra dire il poeta, e conoscerete qualcosa della paura e del dolore. Ma è significativo che il contrario non sia vero. Si pensi quanto si vuole al dolore e alla paura, ma non si saprà nulla dei venti e del mare: il paragone ha il palese scopo di dire che cosa il dolore e la paura fanno al cuore dell’uomo, è inteso cioè a illuminare un’esperienza che non appare. Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 192

La teoria dei «due mondi» è sì un’illusione metafisica, ma non è né arbitraria né accidentale: è l’illusione più plausibile che abbia mai afflitto l’esperienza del pensare. Concedendosi all’uso metaforico, il linguaggio ci permette di pensare, cioè di avere commercio con il non sensibile, proprio perché consente di «portare oltre» — metapherein — le nostre esperienze sensibili. Non vi sono due mondi proprio perché la metafora li unisce.

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 197

Nei Paradigmen zu einer Metaphorologie, Hans Blumenberg ha rintracciato, lungo la storia secolare del pensiero occidentale, la vicenda di certe figure di discorso assai comuni, come la metafora dell’iceberg o le varie metafore marine, per scoprire, quasi incidentalmente, sino a qual punto alcune pseudoscienze tipicamente moderne debbano la propria plausibilità all’evidenza apparente della metafora, con cui surrogano l’evidenza manchevole dei dati di fatto. Il suo esempio principale è la teoria della coscienza della psicoanalisi, in cui la coscienza è vista come la punta di un iceberg, semplice indizio della massa di inconscio fluttuante sotto la superficie. Non solo tale teoria non è mai stata dimostrata, ma nei suoi stessi termini è indimostrabile: nell’istante stesso in cui un frammento di inconscio raggiunge la cima dell’iceberg è divenuto conscio, perdendo tutte le proprietà della sua supposta origine. Eppure, l’evidenza della metafora dell’iceberg è a tal punto schiacciante che alla teoria non occorre né argomentazione né dimostrazione.

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 200

Il senso comune
Tra le peculiarità rilevanti dei nostri sensi c’è il fatto che non possono tradursi l’uno nell’altro — nessun suono può essere visto, nessuna immagine udita, e così via —, benché li colleghi il senso comune, che per questa sola ragione è il più ampio. A questo proposito si ricorderà la definizione di Tommaso d’Aquino: «la facoltà unica [che] si estende a tutti gli oggetti dei cinque sensi», In corrispondenza o in conformità col senso comune, il linguaggio denomina un oggetto con il suo nome comune: tale comunanza non solo costituisce il fattore determinante della comunicazione intersoggettiva — lo stesso oggetto è percepito da persone differenti ed è loro comune — ma serve parimenti a identificare un dato che appare in modo completamente diverso a ognuno dei cinque sensi: duro o morbido al tatto, dolce o amaro al gusto, scuro o luminoso allo sguardo, risuonante in diversi toni all’orecchio. Nessuna di tali sensazioni può essere descritta adeguatamente con le parole. E i sensi della conoscenza, vista e udito, non hanno con le parole un’affinità tanto più stretta dei sensi inferiori. Qualcosa odora come una rosa, ha il sapore di una zuppa di piselli, è soffice come il velluto. Più in là non si può andare: «una rosa è una rosa è una rosa».

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 207

Se il pensiero, guidato dalla vecchia metafora della vista, fraintendendo se stesso e la propria funzione, si aspetta dalla sua azione la «verità», tale verità non è soltanto ineffabile per definizione. «Come fanciulli che, chiudendo le mani, cercano di acchiappare il fumo, i filosofi vedono così spesso involarsi davanti a loro l’oggetto che pretendevano di afferrare» — così, con precisione estrema, l’ultimo filosofo che credesse fermamente nell’«intuizione», Bergson, descriveva ciò che realmente avveniva ai pensatori di quella scuola. E la ragione dello «scacco» è semplicemente che nulla di espresso in parole può mai attingere l’immobilità di un oggetto della pura contemplazione. A paragone dell’oggetto della contemplazione, il significato, che si può dire e di cui si può parlare, è sfuggente: se il filosofo vuole vederlo e afferrarlo esso «si volatilizza».

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 210

Se il pensiero è fuori dell’ordine è proprio perché la ricerca di significato non dà luogo a risultati finali che sopravviveranno all’attività stessa, che continueranno ad avere senso dopo che l’attività è giunta alla fine. In altre parole, benché manifesto all’io che pensa, il piacere di cui parla Aristotele è ineffabile per definizione. La sola metafora che resta, la sola che sia possibile concepire per la vita della mente, è la sensazione della vitalità. Privo del soffio vitale il corpo umano è un cadavere; priva del pensiero la mente dell’uomo è morta.

Se il pensare fosse un’operazione cognitiva dovrebbe seguire un moto rettilineo, che parta dalla ricerca del proprio oggetto e finisca con la sua cognizione. Se lo si combina con la metafora della vitalità, il movimento circolare di Aristotele evoca una ricerca di significato che per l’uomo in quanto essere pensante si accompagna alla vita e finisce solo con la morte. Il movimento circolare è una metafora ricavata dal processo vitale che, pur svolgendosi dalla nascita alla morte, ruota in cerchio su se stesso finché l’uomo è vivo.

Hegel afferma: «La filosofia forma un circolo ... è una serie che non è sospesa in aria; non è qualcosa che cominci dal nulla; al contrario, essa ritorna in cerchio su se stessa». E la stessa idea s’incontra alla fine di Che cos ‘è la metafisica?, là dove Heidegger formula l’«interrogazione fondamentale della metafisica» come «Perché, in generale, c’è qualcosa e non piuttosto niente?» —per un verso la prima interrogazione del pensare, ma nello stesso tempo il pensiero a cui «sempre esso deve continuamente far ritorno oscillando».

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 213

Per di più, la metafora della vitalità rifiuta palesemente ogni risposta all’interrogazione inevitabile, «Perché pensiamo?», visto che non esiste risposta alla domanda «Perché viviamo?».

Nelle Ricerche filosofiche di Wittgenstein (scritte dopo che egli s’era persuaso dell’insostenibilità del precedente tentativo, compiuto nel Tractatus di comprendere il linguaggio, quindi il pensiero, come «raffigurazione della realtà» — «La proposizione è un’immagine della realtà. La proposizione è un modello della realtà quale noi la pensiamo») si trova un interessante gioco di pensiero che può forse aiutarci ad illuminare questa difficoltà. Egli si chiede: «A che scopo l’uomo pensa? ... L’uomo pensa perché il pensare ha dato buoni risultati? Perché pensa che sia vantaggioso pensare?» Ciò equivarrebbe a domandare: «Educa i figli perché ciò ha dato buoni risultati?». Si deve tuttavia riconoscere che «qualche volta si pensa perché la cosa ha dato buoni risultati», sottintendendo con il corsivo che solo «qualche volta» le cose stanno cosi. Quindi: «Come si potrebbe scoprire perché si pensa?» al che Wittgenstein risponde: «Spesso riusciamo a scorgere i fatti importanti solo dopo aver soppresso la domanda “perché?”, allora, nel corso delle nostre indagini, questi fatti ci conducono a una risposta. Proprio nel tentativo di sopprimere la domanda: “Perché pensiamo?”, affronterò ora la domanda: “Che cosa ci fa pensare?”

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 215

Che cosa ci fa pensare?
Il nostro quesito «Che cosa ci fa pensare?» non va in cerca cause né di scopi. Prendendo per scontato il bisogno umano di pensare, esso muove dall’assunto che l’attività di pensiero fa parte di quelle energeiai che, come suonare il flauto, hanno il loro fine in se stesse e non lasciano esteriormente nessun prodotto finale tangibile nel mondo in cui abitiamo. Non è possibile situare nel tempo il momento in cui si cominciò ad avvertire tale bisogno, ma l’esistenza stessa del linguaggio e tutto ciò che sappiamo delle età preistoriche e delle mitologie, ai cui autori non possiamo dare un nome, autorizzano a supporre, senza rischiare d’ingannarsi troppo, che tale bisogno sia coevo all’apparizione dell’uomo sulla terra. Ciò che è possibile datare, però, è l’inizio della filosofia e della metafisica, e ciò a cui possiamo dare un nome sono le risposte date via via alla nostra interrogazione nei diversi periodi della storia. Così parte della risposta dei greci si può trovare nella convinzione di tutti i pensatori ellenici che la filosofia consenta agli uomini mortali di soggiornare in prossimità delle cose immortali, e perciò di acquisire o di albergare in sé «l’immortalità nella misura più ampia ammessa dalla natura umana». Per il breve tempo in cui i mortali sopportino di consacrarsi ad esso, il filosofare li trasforma in creature simili agli dei, in «dei mortali» come vuole Cicerone.

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 217

Scrive Coleridge: “Hai mai innalzato la tua mente fino a considerare l’esistenza, in sé e per se, come pure atto d’esistere? Hai mai detto pensosamente a te stesso “E’!”, incurante in quel momento se innanzi a te ci fosse un uomo, un fiore o un granello di sabbia, senza riferirti, insomma, a questo e a quel modo o forma particolari di esistenza? Se sei realmente giunto a questo, avrai avvertito la presenza di un mistero, che deve aver fermato il tuo spirito in timore reverente e stupore. Le parole stesse “Non c’è nulla!” o “Ci fu un tempo in cui non c’era nulla!” sono una contraddizione in termini. C’è qualcosa in noi che respinge tali parole con l’intensità e l’istantaneità di una luce, come se esse parlassero contro l’evidenza di un fatto che è in ragione della sua stessa eternità.

Non essere, allora, è impossibile: essere, incomprensibile. Se hai fatto tua questa intuizione dell’esistenza assoluta, avrai insieme appreso che questo e non altro era ciò che nelle epoche più antiche afferrò gli animi più nobili, gli eletti tra gli uomini, con una sorta di sacro terrore. Questo appunto fece loro sentire per la prima volta dentro di sé il presagio di qualcosa di ineffabilmente più grande della loro natura individuale.”

Lo stupore platonico, lo shock iniziale che spinge il filosofo a intraprendere il suo cammino, è rivissuto nel nostro tempo allorché Heidegger, nel 1929, concluse una conferenza dal titolo «Che cos’è la Metafisica?» con le parole, già ricordate, «Perché c’é in generale qualcosa e non piuttosto niente?»; definendo quest’interrogazione «la questione fondamentale della metafisica».

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 234

Socrate non insegnava nulla, non aveva nulla da insegnare

Socrate non insegnava nulla per la semplice ragione che non aveva nulla da insegnare: era «sterile» come le levatrici greche, che dovevano aver oltrepassato l’età di procreare. (Siccome non aveva niente da insegnare, nessuna verità da trasmettere, fu accusato di non rivelare mai il suo modo di vedere, come si apprende da Senofonte, che lo difende da tale accusa). Si direbbe che, diversamente dai filosofi di professione, egli avvertisse l’impulso della verifica con i suoi simili per accertare se essi condividevano le sue perplessità; e questo è qualcosa di molto diverso dall’inclinazione a trovare soluzioni agli enigmi per poi dimostrarle agli altri.

Consideriamo brevemente le tre similitudini. In primo luogo, Socrate è un tafano: egli sa come pungolare i cittadini che, senza di lui, «continuerebbero indisturbati a dormire per il resto della loro vita» a meno che qualcuno non sopraggiunga a destarli. E per che cosa risvegliarli? Per pensare ed esaminare, un’attività senza la quale, a suo avviso, la vita non solo non varrebbe granché, ma non sarebbe nemmeno pienamente tale. (Su questo tema, nell’Apologia come altrove, Socrate dice pressoché l’opposto di quanto Platone gli fa dire nell’«apologia riveduta e corretta» del Fedone. Nell’Apologia, Socrate espone ai suoi concittadini i motivi per i quali egli dovrebbe vivere e, insieme, spiega perché, sebbene la vita gli sia «molto cara», non abbia paura della morte; nel Fedone spiega agli amici come la vita sia gravosa e perché sia felice di morire).

In secondo luogo, Socrate è una levatrice. Nel Teeteto egli afferma che proprio perché sterile lui stesso, sa come sgravare gli altri dei loro pensieri; inoltre, grazie alla sua sterilità, egli detiene l’esperienza della levatrice e sa decidere se il bambino è realmente tale o un semplice ovulo non fecondato di cui la gestante dev’essere purgata. Nei dialoghi, però, ben raramente qualcuno degli interlocutori di Socrate ha partorito un pensiero che non fosse un ovulo non fecondato e che Socrate considerasse degno di essere tenuto in vita. Egli faceva piuttosto ciò che Platone, nel Solista, certo pensando a Socrate, affermava dei sofisti: purgava la gente delle «loro opinioni», cioè di quei pregiudizi irriflessi che impedirebbero loro di pensare —aiutandoli, come diceva Platone, a sbarazzarsi di ciò che in loro è cattivo, le loro opinioni, senza tuttavia renderli buoni, senza dar loro la verità. Infine, sapendo che non sappiamo e tuttavia riluttante a lasciar correre come se nulla fosse, Socrate si blocca insistendo sulle proprie perplessità e come la torpedine, paralizzato lui stesso, paralizza chiunque venga a contatto con lui. A un primo sguardo, si direbbe, la torpedine è l’opposto del tafano: essa paralizza là dove il tafano punge e sveglia. E tuttavia ciò che può sembrare una paralisi dall’esterno — dal punto di vista degli affari umani ordinari — è sentito come la condizione suprema di attività e vitalità. A sostegno di ciò, malgrado la scarsità di prove documentarie relative all’esperienza di pensare, non mancano nel corso dei secoli diverse dichiarazioni di pensatori.

Dunque Socrate, tafano, levatrice, torpedine, non è un filosofo (non insegna nulla e non ha nulla da insegnare) né è un sofista, poiché non pretende di rendere gli uomini sapienti. Egli si limita semplicemente a mostrare loro che non sono sapienti, che, in realtà, nessuno lo è — un’«occupazione» che lo teneva così indaffarato da non lasciargli il tempo per qualsiasi altra faccenda pubblica o privata. E mentre si difende vigorosamente dall’accusa di corrompere i giovani, non rivendica mai l’onore di migliorarli. D’altra parte, egli pretende che l’apparizione in Atene dell’attività del pensare e dell’esaminare, da lui rappresentata, costituisse il bene più grande che mai fosse toccato in sorte alla Città. Egli si preoccupava dunque dei servizi resi dal pensare, benché anche in questo caso, come in tutti gli altri, non desse risposte nette e definitive. Si può star sicuri che un dialogo rivolto alla questione “A qual pro’ pensare?” sarebbe sfociato negli stessi punti interrogativi di tutti gli altri.

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 267

Per parte sua, ben consapevole di avere che fare nella sua impresa con ciò che è invisibile, Socrate si valeva d’una metafora per esplicare l’attività di pensare — la metafora del vento: «I venti in sé sono invisibili, tuttavia ciò che essi fanno è manifesto e in certo modo noi avvertiamo il loro avvicinarsi».

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 268

Alla fine, la conseguenza è che il pensiero possiede inevitabilmente un effetto distruttivo, tale da minare in profondità tutti i criteri fissati, i valori condivisi, le unità di misura del bene e del male, insomma tutti i costumi e le regole di condotta di cui si tratta nella morale e nell’etica. Questi pensieri congelati, sembra dire Socrate, sono così comodi che li si può usare anche dormendo, ma se il vento del pensiero che ora agiterò in te ti ha scosso dal tuo sonno, ti ha reso completamente sveglio e vivo, ti accorgerai di non avere in mano se non delle perplessità, e la cosa migliore che possiamo farne è condividerle gli uni con gli altri. Quindi la paralisi indotta dal pensare è duplice: da un lato è inerente al fermati-e-pensa, l’interruzione di tutte le altre attività (in termini psicologici, si può senza errore definire «un problema» come «una situazione che per qualche ragione blocca sensibilmente un organismo nel suo sforzo per raggiungere una meta»), ma può avere anche, quando se ne sia usciti, uno sconcertante effetto ritardato, poiché ci si sente ora insicuri di ciò che sembrava al di là d’ogni dubbio finché si era impegnati, senza riflettere, in ciò che si stava facendo.

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 269

Il due-in-uno diviene Uno non appena il mondo esterno si imponga di forza al pensatore
Certo, quando appaio e gli altri mi vedono, sono uno; altrimenti sarei irriconoscibile. E finché io sto insieme con gli altri, appena cosciente di me stesso, sono come appaio agli altri. Si chiama coscienza (letteralmente, come si è visto, «conoscere con me stesso») il fatto curioso che in un certo senso sono-per-me stesso, benché propriamente non possa dirsi che appaio a me stesso; e questo indica come il socratico «essere uno» non sia così non problematico come sembra. Io non sono solo per-gli altri, bensì anche per-me; e in quest’ultimo caso, è evidente, io non sono soltanto uno. Nella mia Unità si è insinuata una differenza.

In altre parole, siamo di fronte a un transfert, il transfert dell’esperienza dell’io che pensa alle cose stesse. Nulla, infatti, può essere se stesso e nello stesso tempo per-se stesso se non il due-in-uno che Socrate portò alla luce come l’essenza del pensiero e che Platone tradusse in linguaggio concettuale come il dialogo senza voce, tra me e me stesso. Ma, ancora una volta, non è l’attività di pensiero a costituire l’unità, a unificare il due-in-uno; al contrario, il due-in-uno diviene Uno non appena il mondo esterno si imponga di forza al pensatore e tronchi bruscamente il processo di pensiero. Allora, quando è richiamato per nome nel mondo delle apparenze, là dove è sempre Uno, è come se nel pensatore, scisso in due dal processo di pensiero, la differenza si richiudesse di colpo. In termini esistenziali, pensare costituisce un’occupazione solitaria, ma non è l’occupazione dell’isolato. La solitudine è quella situazione umana in cui tengo compagnia a me stesso. La desolazione dell’isolamento si produce quando sono solo senza essere capace di scindermi nel due-in-uno, senza essere capace di tenermi compagnia, allorché, come soleva dire Jaspers, «vengo meno a me stesso» o, per dirla in altro modo, quando sono uno e senza compagnia.

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 280

Il pensiero attrae nel suo presente, il volere muove in una regione in cui non esiste nessuna simile certezza

L’avversione dell’io che pensa nei confronti della volontà è ovviamente di genere molto diverso. Lo scontro ha luogo in questo caso tra due attività spirituali, che sembrano incapaci di coesistere. Allorché formiamo una volizione, quando cioè si concentra l’attenzione su qualche progetto futuro, ci si è ritirati dal mondo delle apparenze non meno di quando si sta seguendo una direzione di pensiero. Pensare e volere sono avversari solo nella misura in cui coinvolgono i nostri stati psichici; ambedue, è vero, rendono presente alla mente ciò che in realtà è assente, ma il pensiero attrae nel suo presente che dura ciò che è o per lo meno è stato, mentre il volere, protendendosi nel futuro, muove in una regione in cui non esiste nessuna simile certezza. Per affrontare ciò che gli viene incontro da questa regione dell’ignoto, il nostro apparato psichico — l’anima in quanto distinta dalla mente — è equipaggiato mediante la capacità dell’attesa, le cui modalità principali sono la Speranza e il timore.

Lo stato emotivo normale dell’io che vuole è l’impazienza, l’agitazione e la «cura» (Sorge), non solo perché l’anima reagisce al futuro con la speranza e il timore, ma anche perché il progetto della volontà presuppone un io-posso di cui non esiste nessuna garanzia. L’inquietudine ansiosa della volontà può essere placata solo dall’Io-posso-e-faccio, cioè dalla cessazione della propria attività e dalla liberazione della mente dalla presa di tale attività.

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 352

Il ricordo può turbare l’anima con il desiderio del passato, ma tale nostalgia, anche se contiene dolore e amarezza, non turba l’equanimità della mente, poiché concerne cose che non è in nostro potere cambiare. Al contrario, l’io che vuole, che guarda avanti e non indietro, ha a che fare con cose che sono sì in nostro potere, ma la cui realizzazione non è per nulla sicura. La tensione che ne risulta, diversamente dall’eccitazione piuttosto stimolante che accompagnarsi alle attività di risoluzione dei problemi, provoca nell’anima una sorta di inquietudine che sconfina facilmente nel tumulto, una mescolanza di timore e speranza che diviene insopportabile una volta che si scopra, secondo la formula di Agostino, che volere ed esser capaci di realizzare, velle e posse, non sono Io stesso. E tale tensione non può essere risolta se non dall’azione, cioè rinunciando completamente ad ogni attività spirituale: il semplice trapasso dal volere al pensare, non produce nulla di più di una paralisi temporanea della volontà, allo stesso modo in cui un trascorrere dal pensare al volere è sentito dall’io che pensa come una paralisi temporanea dell’attività di pensiero.

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 352

La ragione, nel dialogo senza voce del pensiero tra me e me stesso, è persuasiva, non imperativa
Aristotele dice: «Una parte dell’anima è la Ragione. Essa è il naturale sovrano e giudice delle cose che ci concernono. La natura dell’altra parte è di seguirla e di sottomettersi al suo governo». Si vedrà in seguito come impartire comandi sia tra le principali caratteristiche della Volontà. In Platone la ragione poteva assumere su di sé questa funzione in virtù dell’assunto secondo cui la ragione è rivolta alla verità, e verità è in effetti costrittiva. Ma la ragione stessa, mentre conduce alla verità, nel dialogo senza voce del pensiero tra me e me stesso, è persuasiva, non imperativa; solo coloro che non sono capaci di pensare hanno bisogno di essere costretti.

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 373

Ma l’interiorità del dialogo del pensiero, che fa della filosofia l’«occupazione solitaria» di Hegel (benché sia sempre consapevole di sé, accompagnandosi tacitamente ad ogni cosa che faccio, il cogito me cogitare di Descartes), non è rivolta tematicamente all’Io bensì, al contrario, alle esperienze e ai problemi che questo Io, un’apparenza tra le apparenze, sente bisognosi di analisi riflessiva. Questa meditazione su tutto ciò che è dato può venir disturbata dalle necessità della vita, dalla presenza degli altri, da ogni sorta di negozi urgenti. Ma nessuno dei fattori che interferiscono con l’attività della mente proviene dalla mente stessa, poiché gli interlocutori del due-in-uno sono soci ed amici, e serbare intatta questa «armonia» costituisce la prima preoccupazione dell’io che pensa.

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 379

Negli Ebrei l’immortalità era percepita come necessaria solo per il popolo e assicurata ad esso soltanto; l’individuo era pago di sopravvivere nella sua progenie
E’ l’interesse per la vita eterna, a quei tempi onnipresente nell’Impero Romano, che discrimina in modo così netto la nuova epoca dall’antichità, rivelandosi come il legame comune che univa sincretisticamente i tanti nuovi culti orientali. Non che l’interesse di Paolo per la risurrezione individuale fosse originariamente giudaico: dagli Ebrei l’immortalità era percepita come necessaria solo per il popolo e assicurata ad esso soltanto; l’individuo era pago di sopravvivere nella sua progenie, pago altresì di morire vecchio e «sazio di anni». E nel mondo antico, greco o romano, la sola immortalità che si cercasse o per cui si lottasse consisteva nel non-oblio della fama e delle grandi imprese, quindi di quelle istituzioni, la polis o la civitas, che potevano garantire la continuità del ricordo.

Cicerone aveva affermato che se pure gli uomini devono morire, le comunità [civitates] sono destinate a essere eterne e a perire solo in conseguenza delle loro colpe. Dietro le molte nuove credenze si profila nitida l’esperienza comune di un mondo in declino, forse morente. E nei suoi aspetti escatologici la «buona novella» del Cristianesimo affermava in modo perentorio: «Voi che avete creduto che gli uomini muoiono ma che il mondo è perenne, dovete soltanto rovesciare le cose, convertirvi alla fede che il mondo ha una fine ma che voi stessi avrete una vita eterna». In questo modo, è ovvio, il problema della «giustizia», cioè dell’essere degni di questa vita eterna, assume un’importanza completamente nuova, di natura personale.

Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 381

Nessun commento: